Testo di Alessandro Colombo pubblicato su MAGENTA NOSTRA n. 3 aprile 2001
Dopo la concessione feudale del 1619 al conte Luigi Melzi, la vita della comunità magentina non dovette affrontare particolari cambiamenti, e le attività che si svolgevano sulla piazza continuarono senza particolari scossoni.
Il maggior cambiamento nelle abitudini d’uso della zona centrale del borgo, ovvero la cessazione del mercato settimanale, non fu certo legato alle visite periodiche dei novelli conti di Magenta, che avevano la loro residenza magentina poco lontano dalla piazza; causa ne fu invece la congiuntura economica, decisamente peggiorata a partire dagli anni ’20 del XVII secolo per diversi fattori, tra i quali lo spostamento del cuore economico europeo dall’Italia alle Fiandre, la stagnazione commerciale dovuta all’esosa fiscalità del governo spagnolo, la frequenza delle guerre, la scarsità di derrate disponibili rispetto alla popolazione e, non ultimo, un ciclo climatico poco favorevole all’agricoltura.
Senza operatori e merci non si fa mercato, ed agli scarsi bisogni che le persone non riuscivano a soddisfare all’interno della propria attività bastavano le poche botteghe presenti nel borgo.
In questo periodo sono censite un’osteria, due bettole, due ferrai maniscalchi, due spezierie (farmacie), un barbiere, tre calzolai, tre ciabattini, due prestinai, cinque falegnami, due macellai, tre sarti e due merciai, che servivano a circa 1800 abitanti ed all’occasionale presenza di cittadini. La maggior parte di questi esercizi era ubicata proprio sulla piazza, e tale situazione rimase pressoché inalterata fino al secolo seguente, quando nel 1751 il rilevamento catastale censì diciassette botteghe cui si aveva accesso dalla piazza o dai portici sul lato settentrionale. Erano per lo più esercizi legati alla fornitura di servizi indispensabili all’economia locale (calzolai, fabbri, maniscalchi, sarti, falegnami e vasai) e al transito dei forestieri (osterie, bettole, venditori d’acquavite e tabacco).
Della funzione di alcune botteghe della piazza abbiamo indicazione sicura; in particolare nello stabile che chiudeva la piazza sul lato sud, sede della Confraternita nobiliare della Scuola dei Poveri, era situata la bottega dello speziale (la farmacia), mentre spiccava sul lato occidentale, protetto da un porticato, il bettolino di proprietà del conte Melzi, che consisteva in una “bottega sotto il portico dove si esercita osteria, con altra bottega pure sotto lo stesso portico ed altri tre luoghi, con sua cantina, stalla, cassina, corte e di sopra cinque stanze“; qui si poteva vendere e servire il vino al minuto (la vendita del vino era prerogativa di chi deteneva il dazio apposito), ma non si poteva dare alloggio, poiché tale esclusiva era di competenza dell’Osteria Granda situata sulla strada postale. L’oste del bettolino poteva però, anch’egli in esclusiva, “mettere bancone, ove gli piacesse nei giorni delle feste di San Rocco e della Beata Vergine degli Angioli“. La festa di San Rocco, 16 agosto, attirava appunto molte persone dal circondario per la tradizionale fiera, la cui origine è da collegarsi alla costruzione alla costruzione della chiesa omonima, presumibilmente nella seconda metà del Quattrocento. Ed alla fiera del 1630, anno della peste “manzoniana”, è da ricondurre l’aumento della virulenza del morbo, che a Magenta mieté più di quattrocento vittime; anche qui si diffuse la piaga dei supposti untori – come abbiamo già avuto modo di dire – e proprio in quell’occasione ne venne individuato uno: “[…] in questa terra è stato onto il coperto della comunità sulla piazza, et anco la bottega del signor Marco Dardanone, dottor fisico [farmacista], e tutto il mondo dice che è stato uno di Ossona, chiamato Carlo Vedano“.
Venne così dato ordine di bruciare i vestiti di chi era morto appestato, ed anche di “abruciare con la paglia quasi tutto intorno alla piazza, perché si trova onto tutto per terra“. Passati quegli anni difficili, la vita sulla piazza ritornò a scorrere senza particolari sussulti, fino ad un altro triste episodio che si consumò in quello che, per l’occasione, venne trasformato nel palcoscenico di un dramma privato. Era il 6 di aprile del 1637, quando “il Commissario dei perticati [delegato alla riscossione dell’imposta fondiaria] senza mandare alcun avviso venne nel luogo di Mazenta nella casa di messer Filippo Boisio, fedele servitore di Sua Maestà illustrissima, e fece portare fuori tutti i mobili che in essa vi erano, e li fece portare nella piazza d’esso luogo et ivi li fece vendere a vilissimo prezzo e neanche per la decima parte del prezzo che valevano, e li fece in buona parte comperare da suoi huomini, non essendo ivi concorso alcuno“.
Il Boisio era stato quindi oggetto, con sistemi poco ortodossi, di un sequestro fiscale con pignoramento dei beni e manipolazione dell’asta, approfittando del fatto che durante la giornata la piazza era pressoché deserta, poiché il lavoro agricolo assorbiva il tempo e l’interesse della quasi totalità dei Magentini. Non disponiamo di descrizioni seicentesche della piazza, ma potremmo immaginarla sostanzialmente simile a come ci è descritta nel 1783, ombreggiata da sei grandi piante di bagolaro che superavano di gran lunga l’altezza dei tetti delle case. Ne venne allora messa in discussione l’utilità prima di tutto per ragioni igieniche, poiché in primavera abbondavano le gatte pelose, che cadevano addosso alla gente che passava e addirittura, entrando dai camini, contaminavano le vivande sul fuoco; poi per ragioni estetiche poiché, collocate a ridosso di una sbarra di ferro che divideva lo spazio pubblico (di fronte ai portici e sul lato occidentale) da un’ampia area privata, accesso e pertinenza degli edifici del lato orientale, danneggiavano con le radici i manufatti (“passoni, ossia colonnette“) in pietra che reggevano la sbarra. Inoltre i ragazzi si divertivano a colpire coi sassi le bacche che pendevano dai rami, e spesso a patire i danni erano le finestre delle abitazioni. Si trattava quindi di piante antiche, presenti da decenni; la decisione di eliminarle trovò fautori anche in chi si apprestava a riutilizzare Io spazio centrale del borgo per ridare linfa al mercato settimanale, di cui a fine Settecento si era perso anche il ricordo.
Agli ultimi due secoli della piazza sarà dedicato un terzo e ultimo articolo/podcast.
L’immagine di copertina ritrae una porzione della piazza nell’800