Testo di Alessandro Colombo pubblicato su MAGENTA NOSTRA n. 9 novembre 2006
Nella prima metà del Settecento i riferimenti a danni provocati dalla siccità nella pianura milanese sono frequenti, ma la testimonianza più particolareggiata, per Magenta e per le comunità limitrofe, è contenuta nel diario redatto tra il 1713 e il 1749 dal nobile Giuseppe Borri, ora custodito presso l’archivio plebano di Corbetta. Memorabile, a detta del Borri, fu il triennio 1718-1720.
Eccone una descrizione dalle parole di chi ne fu testimone diretto: “Per queste paure [la mortalità delle bestie, spesso connessa alla carenza idrica] si fanno continue orazioni, come anche per ottenere da Dio la pioggia di cui abbiamo una penuria generale sia in questi paesi sia in altri stranieri, al punto che sono asciutti moltissimi fontanili e pozzi, e a ricordo d’uomini non si è mai visto nulla di simile, come accadde nel 1718 e 1719“. Il Borri riferisce di come si pensasse di leggere un presagio infausto in un fenomeno dovuto al ristagno al suolo di umidità, probabilmente quella condizione atmosferica che oggi definiamo afa, e che tre secoli fa era letta come preludio di eventi luttuosi: “Nel mese di luglio seguì per alcuni giorni una cosa di grande ammirazione. Per qualche giorno il sole dalle ore 22 [le 18 per noi] fino a sera restò tutto infuocato e offuscato e di color del fuoco, senza che offendesse la vista guardandolo, nella forma che ha il plenilunio, ma molto più infuocato, come se vi fosse una grande nebbia benché fosse sereno e bello e senza nuvole da alcuna parte. E lo stesso al mattino al levar del sole per lo spazio di oltre due ore infuocatissimo.” In quell’estate del 1719 la siccità e la conseguente miseria non allentarono la morsa e “per tale effetto si fecero diverse orazioni e per implorare la pioggia da Dio, si fece l’esposizione per tre sere delle Sante Reliquie incominciando al primo di agosto e fino al 3 e così ripetutamente quasi per tutto il mese e al 24 dello stesso avemmo finalmente acqua per tutto il giorno di tutta soddisfazione“. La stessa situazione si ripeté tuttavia l’anno successivo; così ne riferisce sempre il Borri: “Si fanno continue orazioni, invitando a pregare col suono della campana alla sera, per implorare da Dio un’abbondante acqua perché già cominciamo a temere molto per la grande arsura e le moltissime garzelle [scarabei] che mangiano la segale, onde molti le hanno fatte maledire, e immediatamente si sono levate dalle spighe e sono andate sopra le viti, e in parte se ne sono andate per otto giorni e poi sono ritornate.” Due pratiche rituali erano collegate alla speranza di veder giungere l’acqua ristoratrice. La prima, utilizzata in ogni occasione di sventura, consisteva nel portarsi in processione al lazzaretto, per invocare le anime dei morti di peste; questi infatti erano considerati dispensatori di miracoli poiché, stroncati dal morbo per lo più in giovane età erano visti come custodi di un “supplemento di vita” da donare all’occorrenza a chi ne avesse bisogno. L’altra pratica, specifica contro la siccità, consisteva nella benedizione dei campi: si andava a prelevare dell’acqua benedetta presso una fonte ritenuta miracolosa, solitamente nei pressi di qualche santuario, e la si spargeva sui terreni, andando sempre in processione, anche se a volte il sacerdote non accompagnava il rito.
Quando poi l’acqua arrivava, l’attesa poteva già trasformarsi in terrore, per i gravissimi danni che i temporali a volte provocavano.
Ancora il Borri ricorda quello del 29 maggio 1725 che devastò i campi “senza lasciare speranza di raccolto con un danno alle viti per i prossimi tre anni a venire.” Anche contro temporali e grandine come accedeva per tutti fenomeni estremi della natura i contadini ricorrevano a pratiche al confine tra la fede e la magia, convinti che tra fulmini e scoppi si annidassero presenze demoniache.
Saranno queste l’occasione di un prossimo approfondimento.
Immagine @cinefotocattaneo