Testo di Alessandro Colombo pubblicato su MAGENTA NOSTRA n. 2 marzo 1994
Il mese di marzo è il mese che segna il risveglio della campagna e la ripresa dei lavori agricoli. Quando ancora l’economia della nostra zona si basava esclusivamente sull’agricoltura, l’inizio della primavera coincideva con l’avvio delle speranze di un’annata clemente e favorevole per raccolti. Già a marzo c’erano comunque alcuni contadini che raccoglievano frutti del lavoro precedentemente compiuto: erano gli allevatori della Vallata che, grazie alle marcite, potevano disporre di erba fresca in tutti i periodi dell’anno. L’origine del termine “marcita” ha sempre suscitato qualche dubbio. I documenti di inizio Ottocento, periodo in cui la tecnica della marcita conobbe una forte espansione, riportano tre ipotesi etimologiche. “O perché si faceva marcire l’erba cresciuta dopo l’ultima falciatura ad uso d’ingrasso, o perché anticamente, non essendo ancora ben agguagliati come adesso, si impaludavano, o per corruzione vernacola di marzite, perché il loro frutto matura con velocità col sole di marzo“. Per questa ultima ipotesi si schierarono i periti censuari, che catastarono questi terreni come prati “che più propriamente appellansi a marzita perché in marzo vi si raccolgono li fieni“, mentre risulta comunque frequente l’uso del termine come voce verbale “far marcire prati” e come aggettivo “prato marcitorio”.
L’Ottocento come detto fu il secolo dell’affermazione della marcita; soprattutto nel basso milanese, perché nel magentino, già scarsamente irriguo, le norme di salute pubblica ostacolavano questa tecnica colturale. La loro ubicazione infatti doveva necessariamente essere discosta dai centri abitati, dopo che la legge napoleonica del 1809 aveva stabilito che per i comuni di seconda classe, come appunto Magenta, la distanza minima tra terreni con ristagno d’acqua e abitazioni civili dovesse essere di almeno due chilometri. Era comunque una tecnica d’avanguardia, assai redditizia rispetto al già ben produttivo prato tradizionale, e comportava quindi regole precise e tassative. È interessante accennarvi, dopo aver premesso che l’unico luogo che a Magenta poteva consentire questa coltura era la Vallata di Pontevecchio, ricca di acque di fontanile.
L’impianto era molto laborioso: il principio basilare era che l’acqua, scorrendo sul prato senza sosta, e impedendo il congelamento della cottica, consentiva la vegetazione invernale dell’erba “non sia il fondo né sì piano da far stagno, né troppo inclinato, sì che l’acqua precipiti e scorra troppo rapidamente” raccomandava la letteratura agronomica dei tempo. Il primo lavoro consisteva nel dividere il prato, senza lasciare avvallamenti, in tanti piani, chiamati “ale”; nella parte più eminente sarebbe poi stata scavata la fossa adacquatrice maggiore, ramificantesi nelle “fossarelle maestre” che portavano l’acqua alle “ale”.
Alla preparazione di una marcita ci si dedicava a partire dalla primavera, con una prima aratura, cui si faceva seguire la semina del granoturco, poiché con tale coltura il campo veniva sarchiato spesso e le erbe nocive erano distolte. Altre arature dovevano essere compiute prima dell’inverno e in gennaio, per evitare che il fondo si indurisse troppo. Nei mesi più freddi, periodo in cui il contadino era meno impegnato, sotto la direzione dei camparo si procedeva allo scavo del fossato maggiore, cui seguivano diverse arature ed erpicature, tutte con lo scopo e l’attenzione di rovesciare la terra nella direzione dei paletti piantati sulla linea delle future roggette. La terra tolta per lo scavo di queste, serviva per dare la dovuta eminenza alle ale. La regolazione delle acque avveniva tramite chiuse disposte a 30-40 braccia una dall’altra; ogni chiusa doveva essere provvista di un pertugio (bocchetta), in modo che l’acqua, non trovando agevole passaggio, tracimasse in parte, allagando il campo; a tal fine le bocchette andavano rimpicciolendosi man mano che il fosso adacquatore si inoltrava nel campo. Esso doveva terminare prima del fosso colatore, ovvero della “cavedagna” (la parte terminale del terreno), lasciando lo spazio necessario al passaggio di un carro. Preparato il fondo, si spargeva l’avena, indi la loyessa e il trifoglio. Lo spianamento col “borlone” concludeva le operazioni. A coronamento di tutto questo lavoro e delle ingenti spese, soprattutto di manodopera, il raccolto di 235 pertiche di buona marcita avrebbe sicuramente consentito (secondo la certezza teorica della pubblicistica ottocentesca) di alimentare per tutto l’anno una mandria composta da 49 vacche mezzane e un toro.
Le regole di manutenzione erano ugualmente fissate: ad esempio d’estate il prato andava innaffiato verso il tramonto, “affinché beva placidamente, acciocché non si guasti la debole corteccia“. Non tutte le acque erano poi uguali: quelle di fontanile, rispetto a quelle del Naviglio, erano ritenute magre e scarse di sostanze fecondatrici, poiché spogliate dalle sostanze benefiche prima di sgorgare dal sottosuolo, nel passaggio attraverso molti strati di terre sabbiose. Freddissime d’estate, non essendo riscaldate dai sole, erano considerate poco adatte per quella stagione; lo erano invece d’inverno, poiché la loro temperatura, grazie alla profondità delle sorgenti, non risentiva del clima rigido. Siccome le acque di colatizio, raccoltesi nei fossi colatori dopo l’irrigazione, erano spesso riutilizzate, si raccomandava di ben concimare le marcite più a monte. Come per le acque, anche per i letami c’era una casistica. Non tutti avevano lo stesso potere fertilizzante: tra i più efficaci sicuramente lo sterco liquido di porco, tratto da animali d’ingrasso rinchiusi in piccole stalle, le baste, e nutriti con farina e avanzi della produzione casearia. Dieci porci “da grassa” si ritenevano sufficienti per concimare circa 30 pertiche di prato. Tra le altre cose, si raccomandava di mischiare sempre lo sterco di cavallo, di facile fermentazione, con quello “freddo” dei bovini.
Foto di copertina: Vallata di Cine Foto Cattaneo