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I mulini della vallata – 1 parte (testo e podcast)

Testo di Alessandro Colombo pubblicato su MAGENTA NOSTRA n. 6 luglio/agosto 1998

Tra i segni che la storia ci ha consegnato, segni ancora oggi presenti sul territorio con la loro specificità, i mulini ad acqua sono forse le testimonianze meglio conservate della vita materiale e delle consuetudini sociali dei secoli scorsi. La Vallata di Magenta conserva solo poche ruote rispetto alle 15 e più in attività nel passato; resistono anche gli edifici, alcuni dei quali purtroppo ridotti a ruderi, altri ristrutturati per conservarne le caratteristiche architettoniche. Oggi nessun mulino nel territorio di Magenta è attivo, né più sono in opera gli ingranaggi. Ma nella zona fortunatamente esistono ancora degli impianti attivabili (ad esempio a Boffalora, Cassinetta, Albairate, Abbiategrasso) cosicché l’opportunità di rivedere in funzione una delle prime attività industriali della storia esiste ancora. I mulini ad acqua erano conosciuti già nell’antichità, ma cominciarono ad essere utilizzati ampiamente solo nel Medioevo, quando cioè l’istituzione della schiavitù ebbe termine, dopo aver sostenuto con la propria energia tutta la struttura produttiva greca e romana. Se per gli antichi era stato più conveniente usare la forza motrice animale ed umana per muovere le mole (i cosiddetti “mulini a sangue” orizzontali), i signori feudali dovettero ricorrere ad altre fonti energetiche, e tra queste la più importante fu l’acqua. La costruzione di un mulino comportava un grosso immobilizzo di capitale, così appare logico che oltre al costo della macinazione, i signori esigessero anche delle “regalie” supplementari, legate al diritto di far macinare nel mulino signorile i cereali raccolti nella propria giurisdizione. Nell’area milanese l’energia idraulica non mancava, grazie all’abbondante presenza di canali, di origine sorgiva o derivati dai navigli. A Magenta, per la particolare struttura del suolo, più elevato del Naviglio grande sulla sponda sinistra, rapidamente degradante sulla sponda destra, dal Naviglio non poté essere derivato alcun canale utilizzabile sul territorio: il cavo Soncino tratto a sinistra a Pontevecchio, bagna i terreni di Robecco, mentre la roggia Cornice derivata a Boffalora porta la sua acqua solo a pochi ettari della Vallata magentina. Tutti i mulini di Magenta furono quindi mossi da acque sorgive, le cosiddette “acque di fontana”, con gli svantaggi che vedremo più avanti. Nel momento di massima attività, nel territorio magentino ne vennero censiti sei: il mulino Crivelli (oggi denominato mulino Ventura), l’impianto più antico esistente a Magenta; poi il mulino Grande Melzi, sulla roggia Lusertone, al confine con Robecco, oggi erroneamente ritenuto in territorio di Carpenzago; il mulino Dugnano o di San Damiano, che traeva il nome dai diversi proprietari che ne ebbero il possesso per secoli, in fondo a via Valle; i due mulini limitrofi, proprietà dei marchesi Mazenta, denominati molino della Valle e Molinetto, sul cavo Linate, tributario della Rottura, posti sulla destra della strada comunale appena al piede della scarpata; un sesto mulino, infine il mulino privato annesso alla cascina Pietrasanta, proprietà Melzi, con pila da riso per uso proprio. L’origine antica, medievale, di questi mulini è assai probabile; certo è che il mulino di più antica fondazione fu quello dei Crivelli, in posizione strategica rispetto sia ai diritti d’acqua che alle vie di comunicazione. La presenza di un mulino dovette ovviamente essere legata alla produzione di grani; e la zona di Magenta aveva ricoperto per secoli, forse già dall’epoca romana, la funzione di serbatoio di cereali per il capoluogo milanese, tanto che il Barbarossa nel 1162 rase al suolo i villaggi della nostra zona per distruggere ogni possibilità di rifornire Milano dei generi di prima necessità. Quando, probabilmente nel XII-XIII secolo, la famiglia che rappresentava l’autorità cittadina ritenne di edificare in luogo un mulino, perché ormai il numero dei residenti richiedeva un’organizzazione di villaggio in grado di autogestirsi, venne logicamente scelta una collocazione ottimale: la posizione del mulino Crivelli, oggi Ventura, presentava il doppio vantaggio dell’abbondanza delle acque, essendo immediatamente a valle della confluenza delle rogge Rottura e Linate, e dell’economicità nel trasporto dei materiali, essendo sulla strada che perpendicolarmente univa Magenta alla Vallata e al guado sul Ticino. II fatto che i Crivelli ne fossero gli antichi proprietari conferma questa ipotesi. La famiglia Crivelli fu tra le più potenti in Milano nel basso Medioevo ed i suoi membri ebbero il rango di valvassori, con vaste proprietà nella zona del Ticino; la loro autorità anche in Magenta è testimoniata dal fatto che agli albori dell’età comunale l’arma gentilizia della casata, un setaccio dorato (cribellum) in campo biancorosso, venne utilizzata come stemma della comunità, quasi ne fossero i privati detentori. (Approfondiremo in altri articoli le vicende del mulino Crivelli-Ventura, seguendone sommariamente la storia).
Torniamo invece ora alle caratteristiche dei mulini ad acqua, ed in particolare di quelli posti su acque sorgive, come furono quelli magentini. La prima considerazione è relativa, purtroppo, alla scarsità di documenti rimasti; e c’è una precisa ragione: i mulini edificati su acque sorgive, cioè su acque private, “proprie” utilizzando l’antica dizione, non erano tenuti al pagamento di alcuna tassa, a differenza di quelli che sfruttavano acque demaniali, del tipo di quelle derivate dal Naviglio; lo Stato, interessato a questi mulini solo per ragioni annonarie, e non per interesse fiscale, non produsse alcuna documentazione di controllo sull’attività e sugli impianti, così che oggi l’unica fonte accessibile è quella degli atti notarili. Ovviamente questo rammarico postumo non coinvolgeva gli antichi proprietari, ben felici di essere esentati dal pagamento della cosiddetta “annata”, anche se a sconto di tale apparente privilegio dovevano periodicamente vedersela con la scarsità d’acqua, in quantità “incerta, per cui talvolta nel maggior bisogno manca, in specie allorquando nell’inverno cadono poche nevi sulle Alpi“. Proprio a tutela di questo grande patrimonio, l’acqua corrente, esistevano precise norme emanate dai legislatori milanesi; le più antiche, le cosiddette “Consuetudines” del 1216 sancivano il principio della libertà d’insediamento di nuovi mulini, a patto che non costituissero danno verso quelli preesistenti. La norma, ripresa dalla “Rubrica generale de l’aqua e de la rasone de li molini e de le strade” (secolo. XIV) intimava che nel caso “o desotto o vero di sopra il suo vicino habia facto fare alchuna cosa che sia a nocimento de tale anticho molino, […] possa tal suo vicino constrenzere a desfare e butare via ogni cosa da luy facta che nocesse a quello anticho locho de tal molino, cum ciò sia che tal antiquo molino sia manifesto Iï antichamente esser stato“. Il luogo migliore doveva quindi essere quello del mulino più antico, e non è un caso che il mulino Grande è posto a valle del mulino Crivelli, e che gli altri mulini magentini sono collocati o su rogge diverse da quella che alimentava il mulino Crivelli o in posizione tale da non provocare fastidio nella regolazione delle acque. Addirittura il mulino Crivelli disponeva di un manufatto che, a monte del canale che portava alle ruote, poteva addirittura creare un invaso, bloccando il libero fluire dell’acqua della Rottura, a danno di chi ne utilizzava la corrente più a valle. Tra gli utenti delle acque i rapporti erano spesso tesi, anche perché il doppio uso che se ne faceva, agricolo e “industriale” contrapponeva diversi interessi.  Approfondiremo questo aspetto, insieme ad altri, nei prossimi articoli.

In copertina: Mulino Ventura – foto di Gianluca Cattaneo @cinefotocattaneo

Laura Invernizzi

Membro del Consiglio della PRO LOCO MAGENTA
Giornalista, realizzatrice e voce narrante della sezione "Podcast"

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