Home » I mulini della vallata – 2 parte (testo e podcast)

I mulini della vallata – 2 parte (testo e podcast)

Testo di Alessandro Colombo pubblicato su MAGENTA NOSTRA n. 7 settembre 1998

L’acqua che scorreva nelle numerose ma non sempre rigonfie rogge della Vallata era il bene più prezioso sia per il settore agricolo che per quello industriale, tanto che l’uso “promiscuo” che di essa si faceva accendeva talvolta liti tra contadini e mugnai. La legge sanciva una netta precedenza ai mulini, riconoscendo agli impianti di macinazione lo status di servizio pubblico, prevalente in particolari occasioni sull’interesse privato dei proprietari agricoli.
Negli “Statuti delle strade e delle acque”, raccolta di leggi risalenti al XIV secolo, l’importanza sociale dei mulini era protetta da precise norme, e tutelata dal “Judice delle strate“; costui, in favore dei mulini, poteva “far pena di soldi cento” ad ogni contravventore che osasse estendere il proprio diritto ad irrigare i campi oltre l’orario ed il calendario stabilito. Il giudice, che risiedeva in Milano, deputava un “camparo” per ogni comunità, con l’incarico di vegliare sul giusto rispetto della rotazione dei diritti d’acqua; dove esistevano dei mulini, normalmente l’acqua poteva essere immessa nei campi solo di notte, nelle giornate festive e di domenica, quando i mulini erano fermi per il riposo settimanale. Gli “Statuti delle strade e delle acque” sancivano la norma che “ciascheduno possa tegnire obstaculo [una porta per deviare le acque sui campi] il sabato dopo il tramontare del sole fino al levare del sole de la seconda feria, zoe [cioè] del lunedì”. Identica disposizione era data per le “vigilie de la Beata Vergine et de li Apostoli et de le altre feste principali“. Verificandosi il caso, non molto frequente, di sovrabbondanza d’acqua, si concedeva tuttavia una deroga da queste disposizioni, consentendo a tutti “la rasone di adacquare in tempo de la piena“. 
Più frequente invece era l’evenienza opposta, in cui, in periodi di prolungata siccità, i mulini potevano divenire gli unici beneficiari della poca acqua che scorreva nei cavi; in queste circostanze cresceva l’importanza del camparo, teoricamente al di sopra delle parti per garantire la giusta applicazione dei patti, ma non sempre così imparziale da non procurare favori ai personaggi più influenti: ai contadini lasciati all’asciugo non rimaneva che la lamentela e la speranza della pioggia provvidenziale
Il camparo doveva sorvegliare anche che i contadini adattassero i propri fondi affinché, attraverso roggette e fossi, l’acqua di “colatizio” potesse venire recuperata; così veniva sottolineato che “secondo la laudabil prassi, li terreni che trovansi per primi a godere dell’acqua di fontana debbono mantenersi a prato, in buona cottica, acciò che chi per sorte trovasi successiva-mente possa servirsi del colatizio“. Anni di prolungata scarsità d’acqua potevano certo mettere in crisi tutto il sistema agricolo-industriale della Vallata; segno di questa difficoltà fu la chiusura nel 1730, dopo diversi anni di siccità e di miseria, del Molinetto del marchese Mazenta (vedi articolo Il flagello della siccità), il cui affluente, alimentato dalla roggia Linate, venne spianato definitivamente per non essere mai più attivato. Altro segno di difficoltà era l’indicazione, costantemente presente nelle carte d’archivio, del fatto che le tre ruote presenti in tutti gli impianti non erano mai impiegate contemporaneamente, essendone utilizzata solo una – o al più due, quando il mulino era dotato di macine con diversa funzione – e rimanendo le altre “in subsidium” [di riserva]. Certo i mulini più grandi, e soprattutto meglio garantiti dal punto di vista dell’energia idraulica, avevano vita relativamente meno difficile; gli esercenti degli impianti più piccoli si lamentavano spesso presso le autorità comunali, invocando sussidi perché “se in tempo di maggior siccità si perdono gli avventori, in sopravvenienza dell’acqua non è facile il riaverli”. L’importanza dei mulini ad acqua nell’economia agricola rimase inalterata per secoli, e cominciò a venire scalfita solo quando all’energia idraulica venne affiancata l’energia termica delle macchine a vapore, poi sostituita dall’energia elettrica. Ma questa è storia recente.
Tornando al secolo scorso, non si può non soffermarsi sulla storica data del dicembre 1868, quando con decreto del Regno d’Italia venne istituita la famigerata “Tassa sul macinato”; fu un provvedimento che, se aggravò le già difficili condizioni delle popolazioni rurali (venne ribattezzata “tassa della disperazione”), portò anche conseguenze piuttosto pesanti per il futuro del settore molitorio. Tassato in proporzione al lavoro delle macine, cui era applicato un contatore, il mugnaio teoricamente doveva provvedere a scaricare sugli utenti del mulino l’ammontare dell’imposta (2 lire per ogni quintale di frumento, 1 lira per ogni quintale di granoturco o segale), trattenendo la quota di grano corrispondente sia alla macinazione che alla tassa. Non fu cosa facile; ci furono scioperi di mugnai, per costringere i contadini a sollevarsi contro la tassa, mentre i contadini, a loro volta, dichiararono o di non volere pagare l’imposta oppure di acconsentire a pagare questa ma non il compenso al mugnaio. Di fronte alla protesta, la Sottoprefettura di Abbiategrasso minacciò di ricorrere all’apertura coatta dei mulini del distretto, temendo per l’ordine pubblico, mentre il “crumiro” della situazione, tal Gio Batta Cairati, esercente al Mulino Pietrasanta di Carpenzago, rompeva il fronte degli scioperanti, aprendo l’impianto sotto stretta sorveglianza della forza pubblica in armi. Dopo qualche mese la situazione tornò tranquilla, ma a spese sia dei mugnai che dei contadini. Se nel 1868 in Italia si contavano circa 70.000 mulini, tredici anni dopo l’introduzione della tassa ne vennero censiti 12.000 in meno, divorati da un sistema di tassazione vessatorio. Giorno e notte i mugnai dovevano essere a disposizione degli agenti del fisco, salvo poi dipendere da essi nel caso, non infrequente, di rottura del meccanismo di conteggio dei giri della macina: “Se il cordellino si spezza, il lavoro è sospeso; e il mugnaio, continuando a pagare i garzoni, gli scrivani, gli inservienti, i vetturali, abbandona la famiglia, partendo frettoloso anche di notte per trovare il Commissario Governativo. Ma la casa di costui nelle ore notturne non si apre, perché non possono turbarsi i suoi sonni; e di giorno forse neppure si aprirà la porta, o sarà occupato, o risponderà che non vuoi essere tediato e che poi provvederà. E frattanto, indifferente o estraneo al male altrui, e quasi ostile per l’incomodo che riceve, e che pure il Commissario non può moltiplicarsi per essere dappertutto, quel mulino resterà deserto, le spese perdute, la famiglia abbandonata, i contratti impediti“. Vittime di questo meccanismo, i mulini rurali si trovarono ad essere svantaggiati nei confronti dei nuovi impianti che, sfruttando la macchina a vapore, andavano costruendosi all’interno delle città. D’altro canto i mugnai, odiati dai contadini, non perdevano occasione per farsi malvolere; cosi il parroco Anelli, di Bernate Ticino, stimato studioso di economia rurale, riferì alla commissione d’inchiesta governativa: “Il mugnaio è il padrone del grano del contadino; è l’esattore del governo, e più ancora l’esattore crudele e senza misericordia. Egli fissa la porzione di grano che gli tocca, e lui medesimo se la prende dal sacco del contadino, fidandosi costui in lui ciecamente, ed anzi il più delle volte d’estate non sta neppur presente. Non esagera chi dice che il campagnolo è in signoria del macinatore; o ribassi o aumenti il valore del grano, il mugnaio domanda sempre la medesima quota. Il mugnaio in più presta il grano ad alto prezzo, in primavera, per riaverlo dopo la mietitura, quando il valore diminuisce, realizzando notevoli guadagni“. A conferma della sua analisi, l’Anelli riportava un proverbio nato nelle nostre campagne, secondo il quale “EI paisan che ‘I fa debit col morneé, el pó pü tirass in pee” [Il contadino che si indebita con il mugnaio, non riesce più a risollevarsi].
Nei primi decenni del nostro secolo alcuni mulini della Vallata tentarono una nuova strada per evitare la definitiva chiusura, dedicandosi alla moderna attività di produzione di energia idroelettrica, sotto l’egida della Società Anonima Fino, con sede in Torino. I due impianti maggiori, il mulino Grande e il mulino Ventura, vennero collegati ad una linea elettrica che conduceva l’energia per uso industriale ad Abbiategrasso.
Fu l’ultima pagina di una storia secolare.

In copertina: Mulino Ventura – foto di Gianluca Cattaneo @cinefotocattaneo

Laura Invernizzi

Membro del Consiglio della PRO LOCO MAGENTA
Giornalista, realizzatrice e voce narrante della sezione "Podcast"

Archivi

Archivi

Seguici