Testo di Alessandro Colombo pubblicato su MAGENTA NOSTRA n. 4 maggio 1997
Nell’articolo pubblicato a febbraio si è visto con quale travagliato iter si giunse all’apertura del canale Villoresi, che a partire dal 1890 cominciò a condurre le acque del Ticino in tutte le campagne dell’Alto Milanese. L’adesione dei proprietari terrieri non fu entusiastica, ed anzi numerose resistenze dovettero essere superate, nonostante fossero chiare fin dal principio le potenzialità dell’opera. Si trattava di ridisegnare la fisionomia delle campagne, di modificare consolidate abitudini ed esperienze secolari, di arrischiare capitali in un periodo in cui l’andamento globale del comparto agrario non suggeriva investimenti.
Così i primi anni di attività del Villoresi non furono di grande successo, ed anche tra i fruitori delle acque le lamentele superarono i consensi: il canone di adesione al Comprensorio irriguo, stabilito in una lira per pertica per il terreno posto a cultura, ed in due lire per pertica per il terreno con fondo a prato, fu ritenuto troppo elevato dagli agrari rispetto al pessimo stato in cui versava l’agricoltura lombarda “per lo straordinario deprezzamento dei prodotti del suolo, che rende il prezzo dell’acqua insopportabile“.
Vi furono lamentele anche per la quantità di acqua che raggiungeva effettivamente i terreni, giudicata talmente insufficiente da far desistere molti dei primitivi acquirenti dal rinnovo del contratto d’acquisto. Così la Società Condotte inaugurò delle vere e proprie campagne promozionali destinate ai Comprensori, impegnandosi a rivestire gratuitamente in calcestruzzo un chilometro di canale comprensoriale per ogni 50 ore di acqua richieste dai proprietari, con lo scopo di “diffondere l’irrigazione in modo utile e per evitare le forti perdite che si verificano nei canali terziari“. Col passare degli anni tuttavia la bontà dell’intuizione e del progetto dell’ingegner Villoresi cominciò a chiarirsi in tutta la sua portata. Alcuni fattori spiegano il cambiamento di direzione nella mentalità dei proprietari, dai progressivi miglioramenti della rete distributiva e delle infrastrutture, allo spiraglio che sul mercato agricolo si cominciò ad intravvedere col nuovo secolo. Ma fu soprattutto una situazione congiunturale propria della zona milanese a far propendere per la scelta della novità: la viticoltura usciva da un periodo di grave crisi, a causa del flagello della peronospora che aveva praticamente azzerato la produzione di vino, mentre sul fronte dei contrasti sociali tra proprietà e lavoratori della terra nel 1889 si era avuta una massiccia ondata di scioperi. Così, dovendo comunque compiere investimenti per il rinnovo delle viti, molti tra i proprietari più aperti alla questione sociale colsero l’occasione di rivedere, con l’utilizzo dell’irrigazione, anche i contratti agrari, sollevando la classe dei contadini dalla dipendenza dalla monocoltura granaria a cui era legata dal tipo di fitto impostole: aumentando la superficie a prato, la zona asciutta del Milanese avrebbe potuto allinearsi con la più avanzata Bassa irrigua. I filari di viti che avevano fatto la storia dell’asciutto milanese, tanto da identificare col termine “vigna” ogni appezzamento di terreno coltivato, vennero così definitivamente strappati; i gelsi, frequentemente associati alle viti come sostegno vivo, resistettero ancora per qualche decennio, fino a quando la concorrenza delle fibre artificiali non ne suggerì l’eliminazione: l’ombra dei gelsi, che l’agronomia ottocentesca aveva definito “ombra dell’oro”, ormai non dava più i lauti guadagni di un tempo, ed anzi ostacolava la coltura intensiva e la massima redditività dei fondi.
Se prima dell’irrigazione fornita dal Villoresi la principale coltivazione, su cui si basavano anche i canoni di affitto, era quella granaria (frumento e segale), dopo il 1890 si cominciò a considerare il mais non più come secondo raccolto, che per la sua scarsa qualità era riservato quasi esclusivamente al consumo contadino, ma come prodotto da avviare sul mercato, per trarne un profitto in denaro. La possibilità di utilizzare maggiori quantità di concime, conseguenza dell’estensione dei prati e quindi dell’allevamento, portava a miglioramenti delle rese e delle qualità, ed al consueto fitto a generi venne progressivamente sostituito il fitto a denaro. I contratti agrari dell’asciutto avevano avuto in precedenza la durata di un anno, ed il colono viveva nell’incertezza del futuro, restio quanto mai a compiere migliorie che avrebbe corso il rischio di non godere. Ma per adeguare i terreni all’irrigazione erano necessari lavori di adattamento, ed ecco che quindi si passò, nei nuovi patti agrari stabiliti nel circondario di Abbiategrasso, di cui Magenta faceva parte, al contratto triennale o novennale.
Col pagamento del fitto in denaro, e non in quota di raccolto, si apriva finalmente per i contadini più intraprendenti la possibilità di organizzare il proprio lavoro secondo criteri nuovi; e molte famiglie coloniche, dopo aver lavorato per generazioni le terre altrui, riuscirono lentamente ad accumulare piccoli gruzzoli con cui acquistare gli appezzamenti di terra che andarono a costituire la piccola proprietà contadina tipica della zona milanese nel nostro secolo.
Foto: FotoCine Cattaneo