Testo di Alessandro Colombo pubblicato su MAGENTA NOSTRA n. 3 aprile 1997
Uscendo dalla nostra città, in qualunque direzione si scelga di andare, possiamo osservare ancora oggi molte terre coltivate, con colori ed aspetti diversi a seconda delle stagioni, ma con un elemento comune: la presenza di una fitta rete di canali, per la maggior parte a cielo aperto e dall’andamento rettilineo, segnalati spesso alla nostra vista dall’abbondante alberatura che ne segue il corso, e che sostiene con le sue radici le prode dei fossi che altrimenti rischierebbero di sgretolarsi con gli anni. Capita tuttavia di essere in alcune occasioni investiti da un senso di malinconia, nel constatare l’incuria in cui sono lasciati alcuni tratti di queste vie d’acqua, ormai in attesa solo di essere riempite di terra e ripianate, perché rese ormai inutili o dalle scelte colturali della nuova agricoltura o dalle zone industriali che hanno occupato la terra delle antiche vigne. Nessuno così ha più interesse a ripulire i fossi e ad estrarre la preziosa “grassina” che negli scorsi decenni serviva ad integrare la sempre scarsa disponibilità di concime. In effetti molto è cambiato da quando, poco più di un secolo fa, a forza di braccia e di calcoli geometrici, ogni vigna del nostro territorio venne raggiunta dalla preziosa acqua proveniente dalle Alpi, convogliata fino a qui da chilometri di canali artificiali. Nei secoli precedenti la prosperità portata dall’irrigazione era stata beneficio di poche terre, quelle che la posizione favorevole della Vallata aveva reso irrigue grazie alla frequenza delle risorgive; d’altra parte il Naviglio, che a valle e a monte di Magenta veniva ampiamente sfruttato per uso agricolo, qui era praticamente inservibile, perché incassato rispetto al livello del terreno alla sua sinistra, e viceversa troppo elevato per le terre della Vallata. Così la coltura tipica delle vigne magentine era sempre stata quella cerealicola, sapientemente accostata all’uva ed ai gelsi, vera ricchezza di un’agricoltura altrimenti di scarso livello. Il mais, coltivazione che necessita di acqua nella stagione più calda, era presente solo ad uso esclusivo dell’alimentazione contadina, perché, in mancanza di una stagione propizia, la resa e la qualità erano assai scarse, e quindi ne precludevano la commercializzazione. La possibilità di una rivoluzione delle secolari consuetudini di tutta la zona dell’Alto Milanese cominciò ad essere intuita verso la metà del secolo scorso, quando l’attenzione degli ingegneri lombardi si concentrò su alcuni progetti di derivazione dai laghi prealpini, in particolare da quello di Lugano, preferito al lago Maggiore per il livello più elevato delle acque. Ma fu solo dopo l’Unità che si posero concretamente le basi per un progetto d’irrigazione dell’altopiano milanese, grazie all’operosità dell’ingegner Eugenio Villoresi, conosciuto nell’ambiente scientifico italiano per essere stato uno dei fondatori della Società Agraria di Lombardia, che dal 1863 aveva iniziato a diffondere l’idea della necessità di un incremento produttivo dell’agricoltura grazie alla scienza ed alla meccanizzazione. Affiancato dal collega Luigi Meraviglia, concepì un progetto che prevedeva lo sfruttamento congiunto delle acque dei laghi Maggiore e di Lugano, per poter disporre di una quantità d’acqua sufficiente a sostenere l’efficiente irrigazione di tutta la zona compresa tra il Naviglio, il Ticino e l’Adda. Fu proprio l’idea della derivazione simultanea dai due laghi a far preferire il progetto Villoresi-Meraviglia rispetto ad altre proposte; nel 1866 la provincia di Milano stanziò, a fondo perduto, l’ingente somma di cinque milioni di lire in vista dell’esecuzione del progetto, mentre lo stato italiano dopo diversi esami si decise ad emanare il decreto di concessione il 30 gennaio 1868, accordando ai due ingegneri la facoltà di derivare le acque a scopo di irrigazione, navigazione e forza motrice; la concessione era subordinata alla clausola che entro due anni i concessionari trovassero gli acquirenti delle quote d’acqua e li costituissero in Consorzio. Non mancarono le voci di dissenso, tra cui quella di alcuni proprietari terrieri, che ritenevano che “l’irrigazione avrebbe comportato la distruzione dei prodotti certi (gelsi e in parte viti) per affrontarne di incerti o per meglio dire chimerici“, mentre la proprietà fondiaria avrebbe dovuto affrontare cospicui investimenti per attuare le sistemazioni necessarie per passare da colture asciutte a colture irrigue. La pressione di molti agrari portò ad una revisione del progetto, che abbandonò definitivamente l’idea della derivazione dal lago di Lugano, giudicata troppo difficile e dispendiosa. Nel frattempo venne propagandata l’adesione nei confronti dei futuri utenti, ai quali non vennero chiesti anticipi di capitali ma impegni a sottoscrivere le quote d’acqua; alla scadenza dei due anni, le dichiarazioni impegnative d’acquisto dell’acqua erano 224, numero che consentì la nascita del Consorzio dei canali dell’Alta Lombardia. L’impegno dei privati fu quindi notevole, ma lo Stato si dimostrò incapace di sostenere l’opera che l’allora ministro delle finanze, Quintino Sella, aveva definito “grandiosa ed utilissima”. Il progetto, rivisto ed adeguato, fu approvato dal Ministero dei Lavori Pubblici solo nel marzo 1877, ma per la difficoltà nel reperire i finanziamenti, la costruzione non poté essere avviata prima del 1882, a 14 anni dall’approvazione del primitivo progetto. Nel frattempo il Villoresi era morto, ed i figli, per poter vedere finalmente realizzata l’idea del padre, dovettero cedere i diritti di concessione alla Società Italiana Condotte d’Acqua, che si impegnò nella costruzione a suo rischio, senza alcun coinvolgimento degli utenti. A partire dal 1886 anche nelle campagne di Magenta cominciarono ad essere individuati i tracciati dei nuovi canali secondari e terziari, e col 1890 la rete irrigua poté dirsi completata.
Con quali conseguenze, si vedrà in un prossimo articolo/podcast.
Foto di copertina: Il canale Villoresi (fonte Wikipedia)