Testo di Alessandro Colombo pubblicato su MAGENTA NOSTRA n. 8 ottobre 2006
L’estate del 2006, così come quella di tre anni prima – entrata negli annali come la più calda a memoria d’uomo – ci hanno messo di fronte ad eventi siccitosi ritenuti estremi, per le nostre latitudini. Eppure, pur in assenza di rilevamenti scientifici e puntuali, è certo che anche nel passato si sono verificati periodi caratterizzati da annate molto asciutte ripetutesi a breve distanza di anni; una situazione meteorologica non dissimile da quella odierna sembra essersi verificato nella nostra zona nel corso della prima metà del Settecento, ed in particolare nel secondo e terzo decennio di quel secolo. Le testimonianze relative a vere e proprie calamità naturali sono in quegli anni numerose; si tratta di informazioni che provengono da fonti diverse, sia pubbliche sia private, che si confermano a vicenda, e come tali possono essere assunte con il valore di una prova. Se i prodotti agricoli avviati ai mercati, in particolare grano e segale, che completano il ciclo vegetativo al termine della primavera, erano poco toccati dalle prolungate siccità estive, era soprattutto il secondo raccolto di frumentone (mais) destinato all’alimentazione contadina a patire la mancanza d’acqua nei mesi più caldi dell’estate; va infatti tenuto presente che, a differenza di quanto accade oggi, la grande maggioranza dei terreni magentini non beneficiava dell’irrigazione, allora fornita esclusivamente dai fontanili e dal Naviglio, e l’equilibrata distribuzione delle precipitazioni rappresentava unica speranza di arrivare ad un raccolto, secondo le attese. Anche nella Vallata, dove il beneficio dell’acqua irrigua era universalmente diffuso non si era immuni da quello che era considerato un vero e proprio castigo di Dio: in particolare i mulini che fruivano dell’acqua di fontanile erano soggetti ai capricci del tempo, ed in particolare pativano lo scarso innevamento sulle Alpi, con il conseguente esiguo accumulo di acqua nelle falde.
Così nel 1730, dopo anni caratterizzati da periodi prolungati di forzata inattività degli impianti per scarsità d’acqua, il marchese Mazenta decise la definitiva chiusura dell’impianto detto Molinetto, installato sul cavo Linate. Qualche anno prima, nella denuncia effettuata per il nuovo censimento, il marchese stesso aveva notificato che “delle due ruote, ne serve una sola quando c’è l’acqua, essendo l’altra di riserva. In tempo di maggior siccità, e quando nel verno cadono poche nevi sulle Alpi, si perdono gli avventori, e in sopravvenienza dell’acqua, che viene da fontana, se pur verrà, non sarà facile il riaverli. Da questo ne viene un discapito non mediocre nel conservare i mulini“. Difficoltà simili, in una situazione eccezionale, ci furono nel 1723, quando anche il più attrezzato e meglio alimentato Mulino Grande del conte Melzi (con ben sei ruote) dovette ridurre e forse sospendere la sua attività, visto che “prosciugatesi le sorgenti per la notoria siccità che fu sulle Alpi la scorsa invernata, si dovette fare dí restauro al molinaro Giuseppe Baglio lire 170 sopra il fitto pattuito“.
Quando la mancanza d’acqua si protraeva per diversi mesi, il problema coinvolgeva anche le autorità civili e religiose, nel timore che ad essa si associassero gravi conseguenze nelle dimensioni materiale e spirituale della cittadinanza. Era in questi frangenti che la percezione di un rapporto diretto con Dio spingeva gli uomini a moltiplicare le richieste perché cessasse la maledizione della siccità. Nel 1777 i Deputati dell’Estimo di Magenta, ovvero i reggenti della comunità, disposero, a spese del bilancio comunale, un’impressionante serie di riti, processioni e tridui di preghiera per implorare la grazia della pioggia ristoratrice. Un primo triduo venne disposto dal 30 maggio al 1 giugno, un secondo dall’1 al 3 agosto, con esposizione della Beata Vergine Addolorata; un terzo dal 4 al 6 agosto con esposizione delle reliquie. E non sortendo tali pratiche alcun effetto, si chiamo in aiuto San Rocco, nella cui chiesa venne esposto il Crocefisso in occasione della festa patronale. La pioggia tuttavia continuò a non farsi vedere, in quell’eccezionale e arido mese di agosto: e si proseguì: si promosse un nuovo triduo dal 22 al 24 agosto, con messa cantata, vespero, processione ed esposizione del SS. Sacramento, e prima ancora che terminasse il mese vennero chiamati in campo anche i padri del monastero dell’Assunta, con una solenne processione in onore di S. Scolastica. A quel punto qualcosa probabilmente accadde: vuoi per l’intercessione dei potenti padri Celestini, vuoi perché ormai tutto ciò che si poteva tentare era stato tentato, l’acqua in quella tremenda estate del 1777 dovette finalmente arrivare, visto che non è data indicazione di ulteriori e successivi provvedimenti. Memorabile, qualche tempo prima, era stata la siccità del triennio 1718-1720, associata a mortalità nelle bestie ed anche in quel caso ad episodi di mobilitazione collettiva (di cui abbiamo dato notizia lo scorso anno pubblicando il testo e podcast Contro la siccità, tra fede e superstizione).
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