Testo di Alessandro Colombo pubblicato su MAGENTA NOSTRA n. 8 ottobre 1998
Situato nella Vallata, ai piedi della salita che conduce a Pontevecchio, dove la roggia Linate confluisce nella Rottura per poi alimentare il cavo Lusertone, il mulino Crivelli, oggi Ventura, è con tutta probabilità l’impianto più antico di cui si ha notizia nel territorio magentino.
I documenti notarili fino ad oggi recuperati attestano la presenza di questo mulino alla fine del Quattrocento, quando tuttavia lo stabile che ospitava le mole versava in condizioni di precaria conservazione, tanto da far pensare ad un’origine ben più antica.
Proprietari dell’impianto molitorio furono da sempre i Crivelli, casata tra le più importanti nella Milano medievale e moderna. A Magenta i Crivelli possedevano molti fondi e detenevano il patronato della chiesa abbaziale di S. Maria della Pace, edificata verso la metà del Cinquecento e dotata con i beni di Bernate Ticino assegnati nel 1186 da Papa Urbano III, al secolo Uberto Crivelli, probabilmente nativo di Magenta.
Nel corso del Quattrocento i nobili Crivelli furono i principali interlocutori in Magenta dei duchi di Milano, detenendo per un lungo periodo la podestaria; le cronache ricordano un Niccolò Crivelli che nel 1455 ospitò nella sua casa magentina i duchi Sforza. Tornando al mulino, la notizia più antica risale al 12 giugno 1498, dove tra i testimoni di un atto notarile relativo ad una dote compare un Giovanni da Trecate, abitante e mugnaio nel mulino di messer Michele Crivelli nella Valle di Magenta.
Di mezzo secolo posteriore è la prima descrizione del fabbricato e delle pertinenze, da cui emerge una struttura già ben articolata, tale da combinare l’attività molitoria con la conduzione dei fondi agricoli annessi e dati in dotazione agli affittuari dell’impianto.
Ecco quindi che nel 1561, all’atto della trasmissione testamentaria di Cristoforo Crivelli al figlio Danese, vengono elencati i beni di origine antica: due case in Magenta (tra cui lo stabile oggi adibito a Municipio), vigne, prati, boschi, diritti sul porto fluviale di Boffalora ed un mulino “da macinare il grano, qual è in tre rodigini [tre ruote idrauliche], et suoi luochi in terra [locali al piano terreno], et suoi superiori, cassi duoj stalla amurati [stalla di muro in due campate], polaro et cessi duoj di portico; et con i suoi utensili necessari e con i logiamenti per il molinaro; qual è in rovina et ha bisogno di molte riparationi: al quale gli coerenzia [confina] da una parte strada, dall’altra la roggia appellata il Linà, che va nel Lusertone, et dall’altra i prati affittati a Francesco di Lanza e a Hieronimo de Bianchi“.
Alla gestione del mulino Crivelli erano preposti di norma due mugnai, con rispettive famiglie, e questa coabitazione costituiva una caratteristica propria, non riscontrabile in altri mulini della Vallata magentina. La mole di lavoro doveva essere piuttosto ingente, e a suffragare questa ipotesi c’è un altro dato: l’attività legata alla macinazione era esclusiva: tutti i terreni agricoli di proprietà Crivelli situati in prossimità del mulino erano lavorati da affittuari diversi, facenti capo alla cascina Granda, altrimenti detta “da prati”.
Nel Cinquecento al mulino Crivelli si macinava solo grano; solamente a partire dagli atti notarili secenteschi si comincia a trovare traccia di una pila da riso, segno che questo tipo di coltura iniziò ad essere introdotto piuttosto tardi nel territorio di Magenta, quando con la bonifica dei fondi boscati, divenuta pratica abituale nel XVII secolo, si liberò terreno adatto per la coltivazione del riso. Durante il Seicento il ramo magentino dei Crivelli non beneficiò, come era invece avvenuto nei secoli precedenti, di una salda discendenza maschile, e finì per estinguersi con Maddalena Crivelli che, andata sposa nel 1703 al conte Luigi Pecchio, portò al marito tutto l’ingente patrimonio trasmessole dagli avi. I Pecchio, patrizi milanesi e conti feudatari di Montesiro, terra brianzola, mantennero la proprietà del mulino e dei beni magentini per tutto il Settecento. Di questo periodo è un interessante contratto di affitto, stipulato con i mugnai Giovanni e Gio Pietro Lanzapanico. Queste, in sintesi, le clausole: ” [..] abbiano i conduttori a dare per fitto semplice di detto mulino, ogni anno lire 360 imperiali, in due rate, ovvero alle calende di Agosto e di Gennaio. E in più siano tenuti i conduttori a dare come appendizi, in ogni festa di S. Martino, quattro paia di capponi e due di anatre. E inoltre con i seguenti patti: primo, che volendo il signor locatore dai conduttori un porco grasso di peso di libre centoventi, detti conduttori siano tenuti a darlo nelle calende di Gennaio di qualsivoglia anno, precedente però l’avviso di darsegli per parte di detto locatore avanti le calende di Ottobre, et in tal caso li medesimi conduttori si riterranno lire settanta della rata da pagarsi a Gennaio: secondo, che il detto locatore sia tenuto a pagare li carichi de alloggiamenti de soldati o caserme o dipendenti da quelli […]”.
Alcuni aspetti meritano di essere sottolineati, ed in particolare la richiesta di un canone in denaro, inconsueta in quel periodo; tenendo presente che gli avventori del mulino pagavano la macinazione lasciando ai mugnai una parte della farina lavorata (in genere un sedicesimo del macinato), si può senza dubbio pensare ad una certa imprenditorialità da parte dei conduttori del mulino, attenti ad agire sul mercato per convertire in denaro la disponibilità di cereali. Si richiedevano poi degli appendizi, un retaggio dell’epoca medievale presente fino a pochi decenni orsono nei contratti d’affitto. Spicca, tra le altre, la clausola della consegna a richiesta del maiale, il cui valore, circa un quinto dell’ammontare dell’intero canone, evidenzia l’importanza di questo tipo di allevamento per l’economia contadina dei secoli scorsi. La presenza di ingenti risorse alimentari all’interno del mulino attirava tuttavia anche attenzioni poco gradite, quali quelle delle truppe in transito o di stanza che, in mancanza di strutture idonee, potevano pretendere di essere alloggiate dai privati: fu una piaga di cui molti magentini si lamentarono per lungo tempo. Il Settecento fu, per il mulino Pecchio, il secolo della perdita della leadership nell’ambito del settore molitorio magentino: l’ampliamento del mulino Grande del conte Melzi, che si dotò di sei ruote idrauliche, spostò verso quell’impianto una quota consistente di utenti. Di questo periodo si conoscono i nomi delle famiglie che lavorarono al mulino Pecchio: Genoni, Baglio, Mettica, Garavaglia ed infine Ventura, i futuri proprietari. Antonio Ventura acquistò l’impianto nel 1847, dopo una serie di passaggi che portarono la proprietà dai Pecchio ai Salazar, ai Mazenta ed infine ai Calderara; questi ultimi nei primi anni dell’Ottocento promossero un restauro, ormai non più dilazionabile, degli stabili e dei meccanismi di macinazione. Il Ventura divenne il primo, tra i numerosi proprietari, ad esercitare in prima persona anche l’attività di macinazione, segno del cambiamento radicale che si stava ormai affermando dopo il crollo degli antichi regimi. Fu tuttavia un’avventura di breve durata: Antonio Ventura morì nel 1855, lasciando al figlio minorenne Filippo l’onere di proseguire la professione. Impresa ardua, addirittura impossibile; oberato dai debiti, e constatando di non poter proseguire l’attività in proprio, Filippo Ventura si liberò del mulino nel 1866. Tre anni dopo il neocostituito “Consorzio degli utenti delle rogge Rottura, Lusertone, Guadate, Verga e loro confluenti” rilevò gli stabili conservandone la proprietà fino al 1965, accompagnandone anche la decadenza tanto che, all’epoca dell’acquisto operato dall’attuale proprietario, il fabbricato versava in “precarie condizioni di stabilità”.
Oggi, ad eccezione delle ruote e del nervile ottocentesco, non esiste più nulla degli impianti di macinazione, ma un sapiente restauro ha ridato splendore alla struttura esterna dell’antico mulino.
In copertina: Mulino Ventura – foto di Gianluca Cattaneo @cinefotocattaneo