Testo di Alessandro Colombo pubblicato su MAGENTA NOSTRA n. 8 ottobre 1996
Nel 1536 il Ducato di Milano, di cui Magenta faceva parte, divenne possedimento del vasto lmpero del re di Spagna, un Impero su cui, grazie alle colonie nelle Americhe, si diceva che il sole non tramontasse mai. II dominio su Milano era essenziale perché in posizione strategica rispetto alle vie di transito, e per questo era necessario garantire la sicurezza dei confini del Ducato, accerchiato com’era da stati bellicosi ed interessati a conquistarlo. Per tale ragione l’amministrazione spagnola su Milano fu sempre improntata ai criteri tipici di un governo militare, piuttosto che a quelli previsti dalle leggi di una normale gestione. Da qui anche la ragione della forte pressione fiscale esercitata sul Ducato milanese, indispensabile per far fronte all’enorme dispendio di denaro necessaria a mantenere un gran numero di uomini in armi. Così Milano conobbe un lungo periodo di depressione economica, ed addirittura due volte nel corso del Cinquecento, nel 1557 e nel 1574, il sovrano dovette dichiarare la bancarotta, l’impossibilità cioè di restituire i debiti contratti con i sudditi e con i finanziari esteri, con gravi ripercussioni sia nell’immagine che nell’efficienza degli apparati statali. Tra i sistemi escogitati dai governatori spagnoli di Milano per incamerare qualche somma straordinaria, il più diffuso fu la vendita dei diritti feudali spettanti alla Regia Camera, eredità delle prerogative dei cessati duchi di Milano. Così anche le terre di Magenta nel 1572 vennero comprese nelle cedole di vendita “dei feudi e loro giurisdizioni, a chi farà migliori condizioni“, cioè al miglior offerente. Cosa significasse essere feudatario nel XVI secolo è presto detto: il titolare del feudo non esercitava alcun diritto sulla proprietà privata altrui, e neppure sulla riscossione di quei dazi e quelle regalie, di origine medievale, che la Camera aveva venduto quasi completamente a singoli percettori. Lo Stato trasmetteva invece al feudatario la “podestaria”, ovvero la facoltà di eleggere un podestà, che tuttavia ricordava solo nel termine, e non nelle competenze, la figura autoritaria del glorioso periodo comunale. Al podestà rurale infatti era rimasto solo il diritto di esercitare la giustizia rispetto alle cause minori di ordine civile, ma limitatamente ai residenti nel borgo. I maggiori proprietari terrieri, milanesi in gran parte, sfuggivano al controllo del podestà feudale grazie ad un antico privilegio, detto “privilegium civilitatis”, che le magistrature cittadine avevano strappato a quelle statali; in virtù di questo, gli abitanti della città, per qualsiasi causa tanto di natura civile che criminale intentata nell’area del feudo, potevano appellarsi ai tribunali milanesi, ove le connivenze erano di prassi. Così la giurisdizione feudale risultava alquanto limitata, quando all’asta per le terre magentine si presentò, con un’offerta vincente, il giureconsulto milanese Guido Cusani, magistrato urbano di nobile lignaggio. Offrendo 6.150 lire milanesi in aggiunta alle 27.800 lire che avevano formato la base d’asta, il Cusani si aggiudicò dunque “il feudo di Magenta con sue pertinenze”, e dal 27 giugno del 1572 divenne conte di Magenta, salvo poi rinunciare all’acquisto fatto per questioni non del tutto chiare, ma comunque imputabili allo scarto esistente tra autorità teorica ed effettivo potere nell’esercizio delle prerogative feudali. Prima di alienare il feudo magentino, la Camera aveva inviato sul posto alcuni ingegneri che ne stimassero il valore e la rendita; abbiamo così la prima descrizione sommaria del borgo, da cui il Cusani poté ricavare le informazioni necessarie: “Mazenta e giurisdizione è pertiche 32.338, di cui 4.821 di chiesa; de li possessori d’essi ne sono de nobili et rurali, de poveri et de ricchi, et restano sotto il maggior magistrato di Gallarate [per le cause criminali]. II podestà si pone per il principe a nome della Camera Regia Ducale et il salario di lire 180 ogni anno, pagate per la pieve di Corbetta in lire 100 e per le pievi di Cesano e Trenno in lire 80. Vi sono circa 300 focolari [famiglie] et vi sono, computate le cassine di Mazenta, incirca millequattrocento anime da comunione, oltre li fanciulli piccioli it numero de quali non si sà precisamente. Non vi è peschiera, ma vi sono ben boschi, et la caccia è riservata per il principe et vi è il camparo deputato dal capitano della caccia. Non se gli fa mercato, ma è ben luoco di transito, cioè da Milano a Boffalora et Novara“. Ingannò probabilmente il Cusani la menzione alla pievi di Cesano e Trenno, confinanti con quella di Corbetta verso il capoluogo, su cui in tempi lontani il podestà di Magenta aveva esercitato la sua autorità. Così, una volta acquistato il feudo, dopo essersi accorto che la supremazia su Cesano e Trenno era solo un’eredità di tempi remoti, il Cusani rifiuto di tener fede agli impegni “se prima non gli si faceva vendita anche delle giurisdizioni delle pievi di Cesano e Trenno sottoposte al podestà di Magenta perché solite contribuire al di lui salario“. Cosa del tutto impossibile, perché il ruolo centrale che Magenta evidentemente aveva avuto nei secoli precedenti ora non esisteva più, nemmeno nella memoria dei magentini più anziani, come testimoniò certo Lancillotto Terzaghi, notaio del podestà, e quindi ben informato sui pubblici affari: “A mia memoria sempre ricordo di aver visto le terre della pieve di Corbetta, eccetto Robecco, Cisliano. Cassinetta, Abbiate e Morimondo venire a Magenta nanzi il podestà per le cause civili, et erano solite contribuire al salario; vi contribuiscono anche Cesano e Trenno, ma mai nessuno di dette pievi e stato citato nanzi al podestà, forse per la distanza“. Due altri gentiluomini, che avevano ricoperto la carica podestarile per diversi anni, confermarono che “mai niuno di Cesano e Trenno a memoria d’uomo e comparso nanzi questo ufficio, e il console di Magenta è obbligato per i criminali a portare le denunzie a Gallarate“. Al Cusani non restò altro che dichiararsi impossibilitato ad assumere la titolatura, ricorrendo al difetto di forma nelle cedole d’asta per invalidare il contralto, che da là a poco tempo venne rescisso, lasciando vacante per quasi mezzo secolo il feudo magentino; e di venderlo non si parlo più, perché la grande estensione della giurisdizione urbana non lo rendeva appetibile per nessuno. Anni dopo, a Magenta restava ancora l’immagine un po’ confusa di questo mancato feudatario: “In effetti c’era il feudatario Cusani, quale concessione non ebbe poi effetto perché essendo lui venuto in questa terra e pensando come feudatario di essere ricevuto ed onorato, nessuno gli guardo addosso, e per questo rinunziò al feudo“. Non restò che concederlo a titolo gratuito, nel 1619, ad uno dei personaggi più in vista della Milano secentesca, il senatore Luigi Melzi, in remunerazione e mercede di servigi prestati alla gloriosa corona di Spagna.
Immagine tratta da Palazzo Cusani: da dimora patrizia a sede del Comando Militare. Note Araldiche e storiche