Testo di Alessandro Colombo pubblicato su MAGENTA NOSTRA n. 6 luglio/agosto 1995
La tristemente famosa peste del 1630, detta “manzoniana” perché magistralmente raccontata e descritta dall’autore dei “Promessi Sposi”, non si limitò ad infierire in Milano, ed anche nel contado si piansero molti morti, sia tra i locali che tra i cittadini che avevano cercato di evitare l’epidemia riparando nelle residenze di campagna. Certo la mortalità non raggiunse le proporzioni del capoluogo, dove perse la vita più della metà degli abitanti; tuttavia, secondo quanto riferito nei primi mesi del 1631, “in Magenta sono morte di peste più di quattrocento persone“, all’incirca un quinto dei residenti, comprendendo anche gli esuli milanesi. Il contagio si accanì in particolare nell’autunno del 1630, tant’è vero che un’altra testimonianza dell’ottobre dello stesso anno ci parla di un centinaio di morti in quel periodo “tra di peste e di onto, ovvero di unguenti pestiferi che fanno morir la gente“. Anche a Magenta quindi si ebbe a che fare con la piaga dei supposti untori, ed anzi, sfogliando gli atti dei processi intentati contro costoro nel 1630 e 1631, si scopre che a Magenta questa follia collettiva ebbe il supporto di un preciso episodio, dai contorni tanto dubbi quanto sconcertanti. Era il 16 agosto del 1630, giorno della festa patronale di S. Rocco, quando tal Carlo Vedano, detto il Tegnone, nativo di Ossona ma ben conosciuto anche in tutto il circondario come “vagabondo e gran biastematore” cosparse di venefico unguento i figli di un postaro magentino, tal Giovanni Pietro Porrada.
Ecco il testo preciso dell’atto processuale, mantenuto nel dettato originale del Porrada, testimone al processo, perché facilmente comprensibile: “Hora gionto nella bottega, et pesato l’oglio (che evidentemente il Tegnone voleva comprare), mi diede un ducatone, che lo pigliò mio figliolo Christofforo, hora morto di sospetto di contagio, et pagato l’oglio disse lasciatemi un poco veder quest’oglio, et diede d’una mano sopra un braccio a detto Christofforo, e poi alla putta (figlia) mezzana per nome Maddalena, la quale voleva governare certo sapone che era sopra il banco, et disse lasciate un poco star ivi detto sapone, et alla putta chiamata Francesca, che era ivi in botegha, disse o che putta grande, et nel medesimo tempo la fregò un poco per di dietro. Et vedendo questo, et partito esso di botegha, dissi a Christofforo che di grazia dovesse mettere quel ducato-ne nell’aceto, ch’io avevo un grande stremitio, et dubitavo assai. La sera dell’istesso giorno di S. Rocco, detto Christofforo, et detta Maddalena, si amalarono, et il lunedì Francesca ancora lei si mise amalata, et così tutti tre fra sei giorni morirono, et visitati fu giudicato esser morti di contagio, et noi altri fossemo serrati in casa.” La notizia di questo episodio ebbe vasta risonanza, e ben presto divenne informazione certa di un fatto sicuro. Così ancora il Porrada tenne a ribadire che il medico si era detto certo che “li miei figlioli sono morti di peste, et tutto il mondo dice che son stati onti“. Certo il gran concorso di folla che la fiera di S. Rocco richiamava anche a quel tempo aveva favorito il diffondersi del morbo, ed è probabile scorgere in questa straordinaria affluenza di persone l’origine della virulenza del male nel periodo autunnale immediatamente seguente. D’altra parte è facile, con le nostre conoscenze, sorridere della credulità popolare di allora, della superstizione dettata sì dall’ignoranza, ma da cui non rimasero immuni neppure le autorità: interpellato sulla questione, lo stesso console Domenico Turati magentino, ebbe a confermare il sospetto sul Tegnone, testimoniando che “in questa terra è stato onto il coperto della comunità (luogo di riparo e di riunione situato sulla piazza principale), et anco la bottega del signor Marco Dardanone, dottor fisico (ovvero farmacista), come io ho visto, et tutto il mondo dice che è stato uno di Ossona chiamato Carlo Vedano”. Untori o meno, al diffondersi della peste, le autorità sanitarie disposero di “fare le diligenze comandate col mandar gente intorno per vedere se si trovavano qualche ongitori, come era il sospetto“, e diedero ordine ai monatti perché bruciassero continuamente i vestiti di chi era morto appestato, al Lazzaretto o fuori, e quanto si temeva potesse portare il morbo; il caso più eclatante si ebbe con l’ordine di “abrugiare con la paglia quasi per tutto intorno alla piazza, perché si trovò onto per tutta la terra“. La peste del 1630 fu gravida di conseguenze anche dal punto di vista economico e sociale, e sovvertì la situazione di molti; merita per questo una trattazione più ampia di quella ora solamente accennata.
Immagine di copertina: Melchiorre Gherardini, Piazza di S. Babila durante la peste del 1630