Testo di Alessandro Colombo pubblicato su MAGENTA NOSTRA n. 1 gennaio/febbraio 2007
Si è detto ampiamente, nei precedenti due articoli/podcast (luglio 2021 e 2022), di come nei periodi di prolungata siccità si ricorresse all’intercessione divina per avere il beneficio dell’acqua. Quando poi questa stava per arrivare, subentrava spesso il timore contrario, atavicamente legato alla furia dei temporali e al timore dei fulmini.
Così, ancora una volta, la protezione divina era invocata nei modi più diversi. Tra i provvedimenti più diffusi per allentare il pericolo della tempesta, vi era il suono delle campane, ed in particolare della campana più grossa di cui si disponesse.
Si trattava di un’antichissima consuetudine, originariamente legata all’esortazione alla popolazione a radunarsi in chiesa per la preghiera, che San Carlo nel 1577 codificò prescrivendo che “quando si suona per la tempesta, oltre al muoverti prontamente per fare orazione per quel pericolo, o ricorrendo subito alla chiesa o almeno nel luogo dove allora ti ritrovi, devi pensare a quei tuoni, lampi e spavento che saranno nel giorno che verrà Cristo a giudicarti”.
Ben presto tuttavia il suono della campana finì per essere inteso come un provvedimento immediatamente risolutore contro grandine e fulmini, e quindi velato di superstizione.
Inutilmente le autorità politiche, nel corso del Settecento, intervennero per vietare questa pratica: la deviazione dallo spirito originario (il richiamo alla preghiera collettiva) si era talmente radicata nel popolo da non poter essere abolita con provvedimenti legislativi, anche se supportati dalla convinzione pseudo-scientifica che le onde sonore provocassero addirittura l’effetto inverso. Un editto a stampa del 1786 così riportava: “Sarà generalmente vietato il suonare le campane per i temporali, divenendo di questi maggiore il pericolo appunto a cagione del loro suono, come l’esperienza lo dimostra, restando bastantemente avvisato il popolo della necessità di ricorrere in questi casi a Dio, perché tenga lontano il pericolo”.
Quando nel 1859 venne donato dall’arciduca d’Austria Massimiliano d’Asburgo alla chiesa magentina il nuovo concerto di campane, il compito di proteggere i raccolti di tutto il circondario venne assunto dalla maggiore delle quattro, la famosa Massimiliana, che conservò la palma di campana più grossa fino al 1897, quando il primato passò alla campana maggiore di Albairate, volutamente fusa con diametro di dimensioni superiori (circa 4 centimetri) rispetto alla campana magentina.
Ai temporali erano collegate altre credenze popolari. Attingendo ancora dal diario del nobile Giuseppe Borri, conservato presso l’archivio di Corbetta, si legge di un episodio prodigioso: “il 29 di maggio [1725] venne un violentissimo temporale e moltissimi, degni di fede, che erano in campagna per diversi lavori videro una nuvola spiccare fuori dalle altre e venire fino a terra prendendo diversissime forme, tra cui quella di un grandissimo uomo con figura molto brutta, che poi diventò la figura di un brutto serpente con una coda lunga che arrivava vicino agli uomini fino a terra, al punto tale che quelli furono obbligati a fuggire per la paura”.
Subito si levarono critiche verso il comportamento dei sacerdoti, che non erano intervenuti pubblicamente per “segnare il temporale” benché ciascuno di essi dicesse di averlo fatto a casa propria, secondo le recenti istruzioni diramate dall’Arcivescovo. Il temporale fece gravissimi danni alle colture, in particolare alla vite, ed anche queste conseguenze vennero addossate alla mancanza dei riti di benedizione del temporale, che avevano lasciato campo aperto al demonio.
La benedizione del temporale, per opera del sacerdote, col uso del SS. Sacramento, era un rito antichissimo nelle campagne: la convinzione della presenza demoniaca nei temporali era confermata nell’immaginario collettivo dall’odore di zolfo che accompagnava il fulmine, e addirittura morire colpiti dalla saetta equivaleva ad essere condannati alla pena eterna per castigo di Dio. Il rito della benedizione era stato proibito, in quanto superstizioso, dal sinodo diocesano del 1572, ma anche in questo caso è verosimile credere che il rispetto di tale norma fosse piuttosto vago, e forse si applicò solamente nell’evitare l’impiego del SS. Sacramento.
La benedizione del temporale continuò ad essere effettuata, con il sacerdote che, ponendosi sulla porta della chiesa, recitava l’invocazione tratta dalle rogazioni “A fulgore et a tempestate libera nos Domine”.
Per finire, è doveroso menzionare la fonte da cui ho attinto le notizie relative a questo e ai due precedenti articoli. Si tratta di una gustosissima pubblicazione, unica nel suo genere, che l’infaticabile Mario Comincini ha dato alle stampe, dal titolo emblematico di “Prodigi”, raccolta di tutto ciò che è stato percepito come prodigioso nel territorio dell’Abbiatense e del Magentino tra il Cinquecento ed il Novecento.