Testo: Alessandro Colombo pubblicato su MAGENTA NOSTRA n. 1 gennaio/febbraio 1995
La stagione invernale era la più pericolosa per il diffondersi delle epidemie. La promiscuità cui era abituata la popolazione delle campagne, solita ripararsi nelle stalle dai rigori dell’inverno, favoriva la trasmissione di malattie infettive, tra le quali la più diffusa era il tifo petecchiale.
L’inverno del 1817 fu un anno ad alto rischio di contagio, e quindi molte furono le circolari provenienti dalla Delegazione Provinciale di Pavia, atte a svolgere un’azione preventiva; tra queste vennero prescritte delle “discipline”, veri e propri regolamenti di salute pubblica da applicarsi “all’aprimento delle stalle così dette d’inverno, ove per ripararsi dalle ingiurie dell’aria sono solite radunarsi specialmente le donne per eseguirvi diversi lavori”.
Così il primo articolo di queste discipline obbligava i proprietari che intendessero aprire le stalle d’inverno a domandarne l’apposita licenza, a meno che la stalla non servisse che al solo nucleo familiare. Una visita medica doveva accertare l’esistenza di condizioni igieniche tali da poter rilasciare la licenza suddetta, che era comunque sempre rifiutata nel caso i proprietari volessero ad ogni costo tenere animali suini nelle stalle, oppure quando il pavimento risultasse troppo umido per la poca circolazione dell’aria. Rispetto ai restanti animali residenti nella stalla, era imposto al proprietario di “trasportare ciascun giorno fuori dalla stalla il letame, asciugare il pavimento dalle orine, e spazzare ogni mattina la parte che sarà occupata dai contadini”. Una stretta sorveglianza era raccomandata perché nelle stalle non si introducessero accattoni e vagabondi, nonché persone affette e sospettate di aver sviluppato “una malattia d’indole attaccaticcia”.
Anche i luoghi di lavoro collettivo erano ad alto rischio; gli operai delle filande di seta in particolare erano oggetto di rigide prescrizioni, e non potevano recarsi al lavoro quando qualche membro della famiglia di appartenenza fosse colpito dal morbo contagioso petecchiale, dovendo rispettare un isolamento di trenta giorni.
Particolare attenzione era poi riservata ai lavoratori stagionali, che “nel tempo della messe concorrono quivi dalla collina, alcuni dei quali costumano di seco condurre anche l’intiera famiglia”; si riscontrava che “con l’accumulamento di siffatti lavoratori avvi pericolo che possa derivare ulteriore diffusione della malattia, massime che i diversi corpi di tali agricoltori dormono d’ordinario insieme sulle cascine”.
Le autorità si accorsero inoltre che molti inconvenienti potevano derivare “dalla ignoranza e dalla inavvedutezza della popolazione”, e per questo vietarono “la circolazione e promulgazione per mezzo stampe di scritti relativi alla dominante malattia petecchiale, se non sieno di argomento puramente medico”; ai falsi rimedi diffusi dai ciarlatani si pensò di porre rimedio chiedendo ai parroci, molto ascoltati dal popolo perché depositari nelle campagne di gran parte delle conoscenze, “di limitare le loro esortazioni al far sapere ai rispettivi parrocchiani il dovere che ad essi incombe di ubbidire con la necessaria diligenza alle prescrizioni ed agli ordini imposti dalle Autorità incaricate di vegliare sulla pubblica salute”.
Nonostante ciò, il tifo petecchiale in quegli anni fece progressi, tanto da far pensare alla possibilità di sospendere in via precauzionale le adunanze ritenute più pericolose, “cioè quelle nelle scuole comunali e nelle chiese, permettendo ai parroci tutt’al più di farle in luoghi aperti ed esposti alla libera ventilazione, affinché il miasma contagioso, il quale potrebbe essere latente in qualche individuo, non abbia a comunicarsi agli altri”.
Quando poi ogni precauzione si rivelava vana, allora l’intervento delle autorità sanitarie si indirizzava al circoscrivere il contagio. Un vero e proprio regolamento, quasi un cerimoniale per la scrupolosità dell’intervento, era prescritto per la purificazione dei locali e per “l’espurgo degli indumenti appartenenti ai poveri stati attaccati dal morbo petecchiale”. Il conte Moscati in persona, presidente del Magistrato Centrale di Sanità, dettò le regole, messe in pratica all’uopo dai farmacisti locali: “Si appenderanno, o si spiegheranno all’alto di una stanza i detti indumenti, e poi si prenderanno cinque parti di zolfo, tre di nitro, ed una di carbone; ciascuna di esse parti dovrà essere di mezz’oncia, quando la stanza sarà di mediocre grandezza, e di un’oncia allorché avrà una maggiore estensione, avvertendo che le proporzioni delle dosi vogliono essere precise, onde evitare una maggiore accensione. Fatta la mescolanza di tali ingredienti, si disporrà la medesima sopra uno o più piattelli di terra a foggia di piramide e collocati che sieno sul pavimento, si chiuderanno tutte le aperture, ad eccezione della porta, da cui dovrà uscire l’operatore, il quale dato fuoco alla punta delle piramidi sortirà subito chiudendosi dietro l’uscio della stanza, la quale rimarrà serrata per 24 ore. Questa operazione dovrà essere ripetuta tre giorni consecutivi, senza che l’operatore, rientrando nella stanza, corra pericolo di soffrirne danno”.
Alla necessaria scrupolosità richiesta per svolgere con efficacia le suddette operazioni rispose la specializzazione dei farmacisti.
A Magenta si distinse per l’arte della composizione di medicamenti e suffumigi il farmacista Ravizza, chiamato ad intervenire anche nelle comunità del circondario sia in occasione del tifo petecchiale sia, qualche anno più tardi, nel combattere l’epidemia di colera. Grazie alla sua opera, in quegli anni le conseguenze delle malattie contagiose poterono essere notevolmente limitate.
Immagine tratta da L’Ospedale di Magenta. Dalle origini all’avvio della nuova sede (1876-1970) di Egidio Fusconi