Testo e foto di Alessandro Colombo pubblicati su MAGENTA NOSTRA n. 8 ottobre 1994
Il giorno di San Martino è sempre stato atteso dai contadini della nostra zona come il momento del rendiconto e del bilancio di tutta la stagione agricola.
I contratti stipulati tra coloni e proprietari delle terre e delle cascine avevano termine l’11 novembre, così come entro quel giorno dovevano essere saldati i conti colonici, pagati i canoni, consegnati i generi d’appendizio. La stagione agricola aveva, a dire il vero, anche un’altra importante scadenza, il 10 agosto, giorno di S. Lorenzo, entro cui procedere al saldo dei raccolti e delle vendite dei grani, ma l’importanza di San Martino come momento del consuntivo dell’annata non venne mai messa in discussione, riflesso e conseguenza anche dell’importanza che la produzione di uve ebbe al secolo scorso nella nostra zona, tanto che la stagione non poteva dirsi conclusa fino a vendemmia eseguita. Storicamente poi le operazioni legate al ciclo agricolo avevano una scadenza fiscale all’inizio di novembre: i prodotti che a quella data risultassero ancora non avviati ai mercati pagavano la cosiddetta “Tassa dell’imbottato”, imposta di origine assai antica ma ancora riscossa fino a metà Settecento.
Così il giorno di San Martino concludeva il lavoro di tutti i protagonisti della vita contadina: coloni, fittabili, fattori e proprietari potevano a quella data trarre il bilancio dell’anno di attività. D’altro canto il rinnovo dei vecchi contratti, e la stipulazione dei nuovi, doveva essere fatta quando ancora la terra si prestava ad essere lavorata e seminata per la stagione successiva.
Ai coloni in particolare San Martino poteva non essere affatto amico: frequenti erano i casi di scissione dei contratti agrari, a causa sia di insuccessi nel raccolto che di desiderio di migliorare le proprie condizioni. Ed allora tutta la famiglia colonica traslocava, magari da un cortile all’altro dello stesso paese, o anche da una zona all’altra della pianura, portando con sé le poche masserizie che avrebbero arredato la nuova casa.
Fare San Martino divenne così espressione proverbiale, ed il continuo bisogno di traslocare, in un popolo tradizionalmente legato alle proprie radici, non aveva certo un significato positivo. Anzi, in alcuni periodi, quando le fallanze dei raccolti riducevano i contadini alla miseria, San Martino era atteso con terrore, perché poteva significare la perdita dell’alloggio e dei pochi beni di cui la famiglia disponeva. In una zona di terreno asciutto come la nostra, con sistema di coltivazione legato alla dimensione della famiglia colonica, la lamentela più frequente dei contadini fu proprio quella di non poter godere della continuità di contratto che era invece caratteristica dei rapporti di lavoro nella zona irrigua.
Non era rara poi l’evenienza che un colono non conoscesse fino all’ 11 novembre lo stato dei suoi conti, ed allora il recarsi dal padrone a San Martino per prenderne visione era come l’andare a conoscere il proprio futuro senza averne una minima cognizione.
Ecco come il parroco di Bernate, Rinaldo Anelli, illustrò questo momento “solenne”, nel descrivere le condizioni delle nostre campagne nella relazione per l’inchiesta agraria del regno d’Italia del 1882: “Intanto viene il San Martino, arriva la lettura dei conti, e coloni ed operai sono chiamati a sentire il loro stato economico di fronte al padrone; trovano poche giornate (il segnalarle era compito del fattore), apprendono che fu basso il prezzo dei bozzoli o dell’uva, e per contro riesce loro lunga la litania del fitto, degli aggravi, della camperia, del tinatico, del nolo graticci bachi, la metà del seme bachi, la metà foglia, gli appendizi ecc., e si scoraggiano e partono dicendo essere il padrone buono solamente per sé. Se il colono infine rimane creditore verso il padrone, questo gli dà una metà del credito, ritenendosi l’altra, quasi a titolo di cauzione“. Nel caso contrario invece si ricorreva alle preghiere, che non sempre avevano successo, affinché la magnanimità del padrone consentisse al contadino di proseguire un altro anno per cercare di saldare il debito accumulato.
Per finire, un riferimento ad alcuni “patti”, ovvero clausole contrattuali stipulate con atto notarile. Il primo, del 1673, regolava l’investitura “nomine locationis et ficti simplicis” tra Filippo Pirogalli e i fratelli Banfi, detti li Pasquali, residenti a Magenta, per 204 pertiche di terreno misto ed una casa in contrada S. Rocco con frangirola (torchio da olio): “Sia dato uno staio l’anno per ogni singola pertica in frumento, segale e miglio, il tutto ben cribiato al netto; il frutto degli alberi per metà, come consuetudine, così come la foglia dei moroni. Il pagamento avvenga per i grani a S. Lorenzo e per il denaro a S. Martino, con i seguenti appendizi: 5 para di capponi belli e buoni, 2 some di avena ben cribiata, 3 dozzine di uova di gallina, 1 staio di farro fatto al netto e in più il trasporto del vino nella cantina del padrone“.
Il secondo documento esaminato è interessante perchè ci presenta una variazione nelle abituali scadenze agricole, motivate dal fatto che il canone era richiesto interamente in denaro; così il contratto con cui Francesco Casati nel 1730 assegnò i beni della Cascina Vecchia prevedeva un’investitura della durata di un novennio, per cui erano richiesti i versamenti annui in tre rate, a Pasqua, a San Pietro e Paolo, a San Martino. Poteva poi capitare che la residenza dei proprietari modificasse i termini di consegna dei prodotti; a Milano i bilanci si tiravano a San Michele (29 settembre), e così, per festeggiare degnamente la ricorrenza, il conte Melzi, nel 1659 chiese dal suo fornaio magentino di consegnargli “2 sacchi di crusca, 40 lire in candele di sego belle e bone, 8 lire in tanto pane di frumento quale è solito dispensare detto Melzi in limosine“.