Testo di Alessandro Colombo pubblicato su MAGENTA NOSTRA n. 9 novembre 1994
Il sopraggiungere della cattiva stagione porta ancora oggi con sé un maggior rischio di contrarre malattie. Immaginiamo come questo pericolo fosse incombente due secoli fa, quando le condizioni igieniche e sanitarie lasciavano alquanto a desiderare; la popolazione era endemicamente più debole di oggi, anche a causa dell’alimentazione carente di vitamine, così una serie di patologie trovava libero campo nei diversi periodi dell’anno.
Se le “malattie pettorali e respiratorie” colpivano coll’arrivo dell’inverno, altri disturbi come “infezioni intestinali, febbri epidemiche e malariche, costipazione, podagra” incidevano in modo rilevante in ogni stagione. L’organizzazione sanitaria della comunità magentina comunque, rispetto ai tempi, era tutt’altro che arretrata.
Nel Settecento a Magenta era stipendiato direttamente dall’amministrazione comunale un medico, col salario di 300 lire annue, il compenso più alto tra il personale fisso al servizio del comune; la condotta medica, tenuta per anni dal fisico Albasini ed esistente allora solo nelle comunità importanti, era coadiuvata dalla presenza di due botteghe di speziali, situate nelle vicinanze della piazza (i farmacisti Bressa e Ravizza) e da due chirurghi, anch’essi con loro bottega essendo la loro attività curiosamente associata a quella di barbiere.
Nonostante mancasse a quei tempi qualsiasi concetto del diritto all’assistenza sanitaria, a Magenta il ceto più umile era oggetto di scrupolosa attenzione da parte dei possidenti, giustamente convinti che la sana costituzione dei lavoratori della terra fosse indispensabile alla miglior resa dei loro fondi.
La nobiltà presente a Magenta aveva nella confraternita laica della Scuola dei Poveri lo strumento per dare una veste ufficiale al dovere morale della carità, e così una buona parte del bilancio della Scuola era dedicato all’ambito sanitario: su 4.700 lire destinale nel 1760 all’assistenza morale e materiale della popolazione, 2.000 lire vennero impegnate per somministrazione di medicinali, 460 lire per contribuire ai salari di barbiere, chirurgo e dottore.
Nel 1768 la Scuola addirittura provvide a reclutare un secondo medico, destinandolo all’esclusivo “servizio di quei poveri terricoli, atteso il notabile accrescimento di popolazione (si erano superate le 3.000 anime)”.
Un formulario della Scuola dei Poveri del 1761 evidenzia la meticolosità nel regolamentare la distribuzione dei medicinali, visto che si ammettevano alla somministrazione solo “le persone e famiglie povere degli inabiIi al lavorerio, dei pigionanti poveri, o dei semplici giornalieri di campagna, e le vedove povere del paese, escluso assolutamente ogni altro genere di persone”, ovvero tutti coloro che potevano provvedere da sé alla propria salute. L’assistenza avveniva con la compilazione da parte del medico di una ricetta “a bollo del Luogo Pio, in testa alle quali si dovrà scrivere la data, nome, cognome del malato, e se sarà per la moglie, filio o figlia, si dovrà esprimere il nome del rispettivo marito o padre”. Agli speziali era raccomandato “di non dispensare rimedio di sorte alcuna senza la ricetta concepita nei modi come sopra”, e soprattutto di attenersi alle indicazioni particolari sulla composizione dei medicamenti “siccome il Luogo Pio, se dovesse ancora soccombere all’importo delle medicine dispendiose, sarebbe inabilitato ad ammettere generalmente tutti i malati poveri per i medicinali necessari”. Alla qualità era preferita la quantità: le limitazioni, rigorose di conseguenza, ci offrono un curioso spaccato della farmacopea settecentesca: “Il Medico non potrà sciogliere le medicine purganti con acque distillate, come altresì aromatizzarle con estratti di droghe, sostituendo invece l’acqua comune, o al più con semplici decozioni in qualche caso particolare, con l’uso delle amandole di persico, o simili, per diminuire la nausea del malato. La China Chinae potrà sciogliersi dagli inservienti agli stessi malati con acqua comune senz’opera delli Speziali, tralasciando di servirsi di altri ingredienti, quali non servono che a diminuire l’attività del febbrifugo, alla riserva di quei casi dove il medico stimasse di aggiungere qualche disostruente o stomatico. Il Medico dovrà pure astenersi di ordinare le polveri diaforetiche, sostituendo invece l’uso della canfora; procurerà ancora di evitare l’uso della Cassia e sciroppi purganti dispendiosi. Procurerà pure di evitare l’uso delle acque stillate, e sciroppi pettorali, sostituendo invece le decozioni pettorali, cose semplici da farsi dagli inservienti alli malati con aggiunta di qualche oncia di zucchero, o miele scelto. Procurerà pure di evitare l’uso de’ Cordiali dispendiosi, sostituendo invece l’uso di qualche conserva. Il medico non potrà ordinare l’uso dell’Oglio di amandole dolci, alla riserva di qualche caso, dove stimasse necessario il farne uso a cucchiai, servendosi invece dell’olio di linosa, che li speziali dovranno sempre avere di buona qualità”. La conclusione del regolamento riassumeva poi lo spirito dei provvedimenti per le singole emergenze, intimando al Medico “di procurare generalmente l’uso dei rimedi che sogliono essere di maggiore attività in profitto dei malati, e di minore dispendio, astenendosi dall’abuso introdotto delle composizioni ideali, che non servono d’ordinario, con inutile spesa del Luogo Pio”. Bando quindi alle sperimentazioni e alle trovate dei singoli, per attenersi invece a prescrizioni di effetto certo e sicuro risparmio. Altre meticolose istruzioni erano quelle riguardanti la purificazione dei locali e delle stalle in occasione di epidemie. Nel 1817 ad esempio, in seguito alla diffusione del tifo petecchiale nelle campagne, una nutrita serie di circolari governative giunse alle autorità locali per disciplinare le abitudini. Vennero allora disposti in gran copia dei regolamenti talmente rigidi da sembrare dei cerimoniali.
Di queste pratiche è disponibile qui il testo e il podcast.
Immagine Farmacia Ravizza piazza Umberto I, Magenta – inizi ‘900. Tratta da L’Ospedale di Magenta. Dalle origini all’avvio della nuova sede (1876-1970) di Egidio Fusconi