Testo di Alessandro Colombo pubblicato su MAGENTA NOSTRA n. 5 giugno 1995
Tra gli avvenimenti curiosi che nei secoli hanno interessato la comunità magentina, merita un posto di primo piano la diatriba accesasi nel 1660 tra le autorità comunali e la Mensa Arcivescovile di Milano; una disputa nata per ragioni fiscali e ben presto sfociata in un gravissimo provvedimento: la scomunica degli amministratori magentini e l’interdetto a tutta la terra comunale. Una questione di immunità ed esenzione fiscale pretesa dalla Mensa Arcivescovile, organismo di gestione economica della Chiesa Ambrosiana, per alcuni beni di recente acquisto nel territorio magentino, aveva dato vita ad una serie di interventi delle parti in causa: la Curia pretendeva l’esenzione dal pagamento della tassa Mensuale ritenendo di aver trasferito sui beni magentini i diritti goduti per il lago di Pusiano, con cui questi beni erano stati permutati: la comunità esigeva invece il pagamento delle imposte, non potendo beneficiare le terre vescovili dei privilegi delle terre ecclesiastiche di antico acquisto, ed in considerazione soprattutto del fatto che la quota non pagata dalla Mensa veniva ridistribuita sugli altri contribuenti. Il Senato milanese, roccaforte del diritto laico, si schierò con i sindaci magentini, in difesa delle ragioni del Regio Fisco. I fatti: essendo ormai arrivato il credito della comunità verso la Mensa, nei 15 anni di pretesa esenzione, alla considerevole somma di 4 mila lire, le autorità magentine, non prima di aver cercato di far pagare i carichi “con ogni possibile diligenza, indirizzarono finalmente la molestia ai veri debitori, mandando un soldato ad alloggiare nella casa dei massari della Mensa, con ordine di esigere un acconto”. Di fronte al “protestato rifiuto, tal soldato per cauzione levò loro due buoi ed andï a depositarli presso l’oste del borgo, di mezza notte e con scorta di gente armata a cavallo.”
Questo atto intimidatorio non mancò di indignare la Mensa Arcivescovile, che mise in atto tutti i suoi strumenti di dissuasione: sulla scorta della Bolla In Coena Domini, riguardante chi avesse violato le immunità ecclesiastiche, comminò la scomunica a Gerolamo Turati, console, ed a Filippo Albasino e Carlo Parmigiani, sindaci, denunziandoli anche al Sant’Uffizio; quattro alunni magentini vennero licenziati dal seminario, le chiese vennero serrate, e su tutta la terra piombò l’interdetto, in base al quale furono sospese tutte le celebrazioni liturgiche e le sepolture dei defunti. La Bolla di scomunica, perentoria e solenne nel suo latino ecclesiastico, con tanto di sigilli e ceralacca, venne affissa sui muri del borgo ed alle porte delle chiese. Mentre il Senato precettò console e sindaci obbligandoli a persistere nella direzione intrapresa, “con l’uso della forza armata, col pigionar bovi o coll’incarcerare i massari, o in qual modo fosse piaciuto”, a Magenta la situazione era estremamente grave: “Non si poteva più dare né sacramenti ai moribondi né sepoltura ai morti, e tutto il vicinato era percorso dall’orrore per la triste situazione di quei miseri: furono sbarrate le porte delle chiese in tempo quaresimale e con scandalo universale: era solo permesso l’ingresso per la predica, ma questa non conteneva altro evangelio che il sgravare i massari, e ubbidire alla Mensa: molti si gettavano ai piedi dei confessori, ma ben presto ne erano scacciati per non acconsentire alle dette istanze: nelle piazze, nelle hosterie, alla dottrina cristiana altro non si sentiva che tali invettive accompagnate da minacce di prigionia e, quel che è peggio, da ingiurie ai poveri contadini del borgo“. Ancora nel febbraio del 1661, un anno dopo, “venticinque uomini della comunità, quasi disperati, andarono in Milano acciò si provvedesse al notorio disordine e scandalo della scomunica ed interdetto” col solo risultato di ottenere una sospensiva per le sole festività natalizie e pasquali. Sempre più vittima di una contesa giocata nelle alte sfere (in Senato si affermò “trattarsi di una delle principali battaglie giurisdizionali che in questa consulta diede motivo di opposizione“), la comunità non dovette far altro che affidarsi al buon senso dei contendenti; mentre la Curia affermava di essere disposta ad annullare i provvedimenti punitivi quando fosse stata reintegrata dei danni subiti e “fossero levati quei soldati mandati ad standum sui di lei beni“, fu il Senato ad attenuare per primo la sua fermezza, accordando alle autorità magentine la possibilità di concedere l’esenzione a titolo oneroso, non mancando tuttavia di segnalare che questo equivaleva a “cedere volontariamente ed operare il diametro contrario di quanto suggerito“. Ai magentini venne in pratica lasciata la responsabilità sulla decisione: “Al Fisco interessa che le terre inviino il carico che tocca: se la comunità non vuol far pagare, l’ha da imputare a se stessa“.
Nei primi mesi del 1662 venne quindi stipulato l’accordo: i beni della Mensa beneficiarono dell’esenzione dai pesi laicali, cedendo tuttavia alla comunità l’interesse “in raqione del 5% su un capitale di 4000 lire sopra il Monte di S. Carlo, equivalente quindi a 200 lire annue.” Quando nel secolo successivo il Monte di S. Carlo non fu più in grado di pagare i crediti ai montisti, la comunità ebbe modo di pentirsi di questo accordo: ben presto tuttavia la questione si risolse in maniera definitiva, perché nel 1753 la Mensa decise di vendere i beni magentini, tra cui la casa da nobile al Ponte (oggi Villa Castiglioni), ritenendo più idonee per la villeggiatura degli alti prelati le terre di Groppello, più tranquille, comode, deliziose, e soprattutto meno soggette al transito ed alloggiamento delle soldatesche.
Nell’immagine Fondo della Curia Arcivescovile di Milano