Testo di Alessandro Colombo pubblicato su MAGENTA NOSTRA n. 2 marzo 1999
Accertata grazie a ritrovamenti archeologici la presenza romana in Magenta, non rimangono tracce certe di quanto avvenne nel nostro territorio nei secoli che seguirono il crollo dell’Impero romano. Altri documenti, diversi da quelli materiali, vengono fortunatamente in aiuto dell’indagine storica, che nel formulare ipotesi si avvale spesso di indizi, sommando i quali si può giungere a delle prove. La toponomastica è una disciplina ricca di sorprese e, grazie alla continuità nei secoli dell’uso degli stessi nomi geografici (almeno fino al secolo scorso), fornisce a volte indizi molto preziosi.
Anche per Magenta, l’indagine di alcuni toponimi, oggi per lo più scomparsi, si rivela fonte di conoscenza. L’odierna piazza Vittorio Veneto era fino al secolo scorso denominata piazza Scaldasole. E’ questo un termine noto nella toponomastica milanese, e concordemente interpretato come segno di una presenza longobarda; esistono località Scaldasole un po’ ovunque, in luoghi ben precisi, dove cioè risiedeva, a capo di una “sculdassia” (distretto), un funzionario chiamato “sculdascio”, ovvero delegato o meglio vicario del gastaldo cittadino, (dipendente direttamente dal re); lo sculdascio aveva funzioni giudiziarie sulla comunità locale, sommate a quelle di capo militare del gruppo degli arimanni (guerrieri e proprietari terrieri).
La presenza del toponimo “scaldasole” fornisce quindi un quadro delle strutture giudiziarie minori, che proseguirono nel tempo in età comunale, con i vicariati affidati ai pretori e ai podestà locali, ed anche in epoca più recente con le Sottoprefetture e con le Preture (Magenta fu sede di Pretura nella seconda metà dell’Ottocento). Ciò vale in particolare per i territori facenti parte delle pievi più antiche della diocesi milanese, tra cui quella di Corbetta, la cui dedicazione a San Vittore consente di datarne l’origine alla fine del IV secolo. Non sempre il centro religioso coincideva con quello militare e giurisdizionale; per la pieve di Corbetta, in considerazione della sua vastità, si andarono affermando infatti due centri di “sculdassia”, con un probabile rapporto di subordinazione dello sculdascio di Magenta nei confronti di quello di Abbiategrasso, quest’ultimo citato in un documento di epoca carolingia tra gli otto principali della diocesi milanese (Vualpertus sculdasius de Abiate, anno 864).
Il diverso e maggiore sviluppo avuto dai centri di Abbiategrasso e Magenta rispetto a Corbetta, capo di pieve, conferma, come avvenuto in situazioni analoghe in altre pievi milanesi, la preponderanza che il centro dell’autorità civile assunse a partire dall’epoca longobarda rispetto al centro religioso. L’estensione originaria della sculdassia magentina dovette superare l’ambito della pieve, confinando probabilmente con il territorio della giurisdizione cittadina degli sculdasci milanesi. Traccia di ciò è facilmente rinvenibile in documenti anche di molto posteriori al periodo preso in considerazione; ancora alla fine del XVI secolo infatti, secondo la “Relatione degli ofiziali di giustitia dello Stato di Milano”, il podestà di Magenta, erede delle prerogative giurisdizionali dello sculdascio, godeva di un salario “di lire 169 l’anno che se gli pagano parte dalla pieve di Corbetta, parte dalla pieve di Cesano et parte dalla pieve di Trenno“, ovvero da quei territori confinanti con la parte più orientale della pieve di Corbetta ed inseriti nelle pievi limitrofe alla città, di costituzione posteriore rispetto a quelle più discoste dalla sede vescovile, perché tolte alla zona periferica di Milano (Corpi Santi) con l’ingrandirsi della città. Era una giurisdizione che nel XVI secolo era ormai solo teorica, residuo di consuetudini non più attuate e non più attuabili, perché risalenti ad un antichissimo e diversissimo passato. Allo sculdascio magentino erano viceversa sottratti quei territori della pieve di Corbetta che facevano capo alla sculdassia abbiatense, e che un documento cinquecentesco indica in Robecco, Cisliano, Cassinetta, Abbiate ed Albairate.
Altri segni della presenza longobarda nel territorio magentino vengono dalle dedicazioni di due edifici di culto. Ancora oggi visibile è la chiesa del Salvatore, in località Castellazzo de’ Barzi, comunità dipendente fino alla metà del secolo scorso dalla cura d’anime della parrocchia di Magenta; più importante ancora, ma purtroppo completamente scomparso, era l’oratorio dedicato a San Pietro, abbattuto all’inizio del Seicento, a causa del suo pessimo stato di conservazione; il “Liber Sanctorum Mediolani” di Goffredo da Bussero (XIII secolo) lo poneva tra gli otto edifici di culto presenti nel territorio magentino. La dedicazione era indubbiamente di età longobarda, e la presenza in Abbiategrasso di una chiesa con identica dedicazione confermerebbe un certo legame tra le due sculdassie. Altre tracce longobarde presenti non sono oggi verificabili, ma ulteriori ricerche su documenti medievali potrebbero in un prossimo futuro dare altre notizie su un periodo tanto oscuro quanto affascinante.