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Vigne e gelsi delle campagne magentine (testo e podcast)

Testo pubblicato su MAGENTA NOSTRA n.7 settembre 1995

Nella “Grande illustrazione del Lombardo-Veneto”, monumentale opera compilata da Gualtieri di Brenna e data alle stampe nel 1857, è contenuta una descrizione piuttosto particolare del territorio di Magenta: “La zona è salubre, e sebbene la vista non si ricrei di amene colline, pure quelle aperte e vastissime pianure copiose d’ogni ben di Dio hanno il loro poetico ed allettante: il territorio abbonda di gelsi, grani, uve squisitissime: mandrie di bovi e di cavalli corrono le ubertose praterie: quaglie, pernici, lepri si annidano nelle sue boscaglie“.
A nessuno può sfuggire come l’autore abbia certo esagerato nell’utilizzare un lessico tanto consueto a quei tempi quanto poco vicino alla realtà: in una cosa tuttavia non si può dire che la realtà magentina sia stata travisata: “…il territorio abbonda di gelsi, grani, uve squisitissime…“. Ecco in ordine di importanza le tre colture principali della zona asciutta del contado milanese, coltivazioni che erano il più delle volte associate nei singoli appezzamenti di terreno e per le quali la sapiente opera del contadino riusciva a trovare un equilibrio vegetativo in modo che il rigoglio dell’una non ostacolasse la produttività delle altre. La maggior parte del territorio coltivabile, secondo il censimento del 1730, era ad “aratorio vitato e moronato“, intendendosi indicare con questa definizione il fondo a seminativo in cui erano inseriti filari di viti maritati ai gelsi.
La presenza dei gelsi, fondamentale per l’economia agricola, era in continuo incremento (dai 4.462 gelsi del 1730 si passò ai 16.300 del 1879) e forniva anche una conveniente alternativa per il sostegno dei filari delle viti, abitualmente appoggiati a pali che si usuravano velocemente.
Un segno di questa pratica è nella clausola dei contratti di affitto che obbligava i conduttori dei fondi a piantare tanti filari di viti, con li suoi moroni a capo di detti fili, quanto sarà la capacità del campo, e queste allevare come deve fare un perito agricoltore.
La distanza tra i filari di vite era abitualmente di una decina di metri; nel disporre i vitigni si praticavano due sistemi: “a foppa”, lasciando cioè le piante maritate ai sostegni e separate le une dalle altre: “a filagnone”, collegando i vitigni in filari contigui.
Il vino prodotto nel Magentino era di buona qualità. Il contadino tratteneva presso di sé solo un’esigua parte della produzione, quanto cioè bastasse per il consumo famigliare, limitato ai giorni festivi; il resto della sua quota (abitualmente i prodotti del soprasuolo erano divisi a mezzadria) serviva invece per saldare i debiti che frequentemente aveva con il proprietario a causa dell’impossibilità di consegnare sempre la quota di grani pattuita. Le uve, o il vino prodotto dopo la pigiatura di queste nei torchi presenti in tutte le case dei maggiori proprietari, erano così avviate sul mercato di Milano, dove erano smerciate esclusivamente per il consumo locale.
Nel corso dell’Ottocento la produzione di vino aumentò, a scapito tuttavia della qualità; se ancora all’inizio del secolo il vino della nostra zona era rinomato sulla piazza milanese, nel 1835 di fronte ad una produzione “sovrabbondante al consumo del paese, vendendosene in quantità“, era sottolineato che “si trasportano però quivi de’ vini del Piemonte. pei quali massime i contadini e gli artisti (artigiani) hanno molto predilezione, prova ne sia che con difficoltà troverassi un albergo od una bettola che vadano privi di simili vini”.
Carattere di una vera e propria arte aveva la coltivazione dei gelsi, allevati – secondo quanto riferiva l’agronomia ottocentesca – in quantità e con felice riuscita, formando i bachi da seta una delle principali derrate. Nella coltivazione in generale puossi dire che si fa uso della massima diligenza, non trascurandosi né mezzi né forze che influire possano alla loro prosperità. I nostri coltivatori, persuasi dall’esperienza che per vedere a prosperare le piantagioni, conviene che le terre ove il gelso ebbe vita, come qualunque altro albero, siano costituite dagli stessi componenti di quelle ove deve allignare fatto adulto, in ciascheduno de’ loro poderi hanno un vivajo destinato a fornire allievi, quali dopo un triennio lo inestano col “morus alba”, siccome considerato sotto ogni aspetto produttore di foglie le più propizie per cibare il baco, onde renda abili produzioni; dopo altro triennio trasportano ne’ campi o vigne ed in altro fondo, ove apparecchiata una buca ampia il più che sia possibile, le forniscono il fondo di concimi, la cui scomposizione abbia luogo con lentezza, al quale sovrappongono un ingrasso di precoce dissoluzione, onde nella tenera età abbia il gelso un continuo ed abbondante nutrimento: ivi piantano il piccolo albero e lo circondano di terra sino ad otturare la buca, qual terra sia di buona qualità, massime negli interstizi prossimi alle radici. Fatto questo, rivestono l’albero con paglia onde difenderlo dagli insetti, dal morso de’ bestiami che pascolano ne’ fondi, ed onde mantenere uno stato uniforme di temperatura nella linfa che serpeggia nei vasi suoi conduttori e per ultimo lo forniscono di un’asta onde togliere le cause di scuotimento della pianticella, che smovendo le radici di tratto in tratto sono loro di gravissimo danno.
L’impagliatura si rinnova in ogni anno. Una volta o due all’anno, e nelle stagioni più asciutte smuovono il terreno circostante al tronco della pianta, onde le radichette possino
godere de’ benefici influssi della rugiada e di varj altri gas vaganti nell’aria e proprj al loro nutrimento ed in ogni primavera taglino i rami delle stesse, onde gli umori tutti condensati nel tronco e nelle radici abbiano questi a vegetare prosperamente e col crescere disporsi a contracambiare con abbondante prodotto le cure del suo coltivatore.
Al taglio de’ rami concorda altra importante operazione che consiste nel disporre il castello della pianta in modo regolare e specialmente in guisa che il contadino, che sovra deve salire per cogliere le foglie, possi entrare nel suo centro senza appunto rovinarlo. Continuate queste operazioni per un quinquennio circa, nel quale periodo di tempo l’albero ebbe campo di rendersi robusto ed atto a soffrire senza pregiudizio il distacco delle sue foglie in tempo in cui le funzioni della vegetazione s’agitano colla maggiore energia, incominciano a raccogliere la foglia il cui prodotto va crescendo sino a che il diametro della pianta sia giunto a circa once sei (30 cm.), dopo la qual epoca decresce. In questo secondo stadio della vita del gelso nel quale produce, si levano parte de’ suoi rami e tutti si racconciano, e ciò ogni quattro anni, qual’operazione dicesi maggenga, che praticasi all’oggetto di dar forza alle radici, onde ottenere maggior durata all’albero ed onde la linfa tutta raccolta in pochi rami sia di sprone alla moltiplicazione de’ germi e quindi delle foglie
.
La pur abbondante raccolta di foglia non era sufficiente all’allevamento locale dei bachi, e per questo la si importava dai distretti di Rosate e Bereguardo.
Con la fine dell’Ottocento si chiuse nelle campagne magentine la stagione d’oro della vite e del gelso: la prima fu dapprima decimata dall’oidio e dalla peronospora, e ricevette il colpo di grazia dopo la costruzione del Villoresi, perché l’irrigazione delle vigne un tempo asciutte ne segnò la trasformazione colturale.
La secolare storia del gelso e della seta lombarda dovette invece fare i conti con concorrenza sempre più agguerrita della seta d’importazione e con la nascita delle fibre sintetiche.

Immagine di vitigno a fossa tratta da Viticoltura Teorico-Pratica, Ottavio Ottavi – 1885

Laura Invernizzi

Membro del Consiglio della PRO LOCO MAGENTA
Giornalista, realizzatrice e voce narrante della sezione "Podcast"

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